Vita maledetta

Scusa e grazie

“Per vivere come un cane non è meglio che la fai finita?”.
Ecco una delle frasi più significative del film di Gavin Hood “Il suo nome è Tsotsi”.
Una storia alquanto commovente quella di un giovane ragazzo, abitante del Sudafrica, che vive in una vera e propria bidonville.
Tsotsi, il protagonista, si presenta come un poco di buono, un assassino, un bullo, ma che nel profondo dimostra di avere un cuore. Il suo essere cattivo e duro è dovuto a un trauma familiare subito durante l’infanzia. David, questo è il suo vero nome, nasce in una famiglia che non si può di certo definire benestante e unita.
La madre, che verrà colpita da una grave malattia, dimostra di avere un grande affetto per il figlio, un affetto che non è per niente dimostrato dal padre.
Tsotsi, in seguito a un brutale episodio, scappa di casa e va a vivere per strada, sistemandosi “alla meglio”. Egli avverte profondamente la mancanza di una famiglia e lo fa ben notare in molti dei suoi comportamenti. Qualcuno nella sua vita darà una svolta significativa, qualcuno a cui si affezionerà molto, che lo farà cambiare e che per la prima volta gli farà dire scusa e grazie.
Tutto sommato un bel film, in grado di colpire lo spettatore e che potrebbe far cadere qualche lacrima.
Un film, però, che, come tutti gli altri, ha dei punti deboli. La scenografia non è delle migliori; alcune scene, come la caduta della pioggia e dei lampi, sono visibilmente montate. Alcune scene sono eccessivamente dure e all’interno del copione è presente qualche parolaccia di troppo. Anche la recitazione ha dei punti deboli, alcune scene sono troppo inverosimili: si può essere sul punto di morire e accennare soltanto pochissimi segni di paura?
Queste, però, sono delle sfumature che non condizionano eccessivamente la bellezza del film.
Va fatta una riflessione molto importante su una parola significativa, forse la più di tutte, pronunciata durante il film: decenza.
Alcuni non sanno neanche cosa voglia dire e il film riesce a spiegarlo bene. La decenza, infatti, viene definita come “il rispetto (prima di tutto) per se stessi”; ma viene anche specificato che, in quella società, di decenza ce n’è ben poca.

Giulio Palmas, II B ped.

Tsotsi = gangster. Ma sarà vero?

Tsotsi è un delinquente impavido e senza emozioni che vive alla giornata, non esitando a uccidere a impulso. Quando gli vengono fatte troppe domande reagisce spesso con una violenza senza scrupoli.
Dopo aver brutalmente rubato una macchina, Tsotsi si sorprende nel trovare, sul sedile posteriore, un neonato che piange. Presto, il bambino risveglia in lui memorie dolorose della sua infanzia: la sua esposizione alla violenza del padre e la sua vita passata nei grandi tubi di cemento con altri bambini sfortunati, come lui. Inizialmente Tsotsi nasconde il neonato nella sua casa, nella baraccopoli di Johannesburg, lontano dai suoi amici delinquenti, ma più tardi lo trasporta in una busta della spesa dovunque vada. Tuttavia l’incapacità di Tsotsi nel prendersene cura lo costringe a seguire una ragazza vedova a cui ordina, con la pistola, di allattare il “suo” bambino.
Il film descrive bene l’ambiente duro e scuro che circonda Tsotsi e la vita di povertà tremenda che conduce.
Tsotsi realizza una nuova prospettiva sulla vita, che lo trasforma, aiutandolo a definire chi veramente è, e generando in lui un desiderio di fare del bene e avviarsi verso la restituzione del bambino. Ci riuscirà?
Molto interessante in questo film è lo sviluppo del carattere; inizialmente vediamo un ragazzo impulsivo e violento che è svelto nell’agire e nel fuggire dalle conseguenze delle sue azioni. Vediamo piano piano l’evoluzione di Tsotsi in un individuo più maturo che basa il suo comportamento sulla ragione piuttosto che sull’impulso.

Susanna Cuscusa, II B ped.

Vita maledetta

Un film di: Gavin Hood
Genere: drammatico

Tratto da un romanzo del sudafricano Athol Fugard, il film racconta una storia del tutto emozionante.
Come tanti bambini del Sud Africa alla periferie delle grandi città, che crescono per strada senza una famiglia o – nel caso del film – in campagna al riparo di tubi di cemento abbandonati, anche il nostro protagonista ha vissuto parte della sua giovinezza in questo modo. Una volta cresciuto, Tsotsi si ritrova a vivere in una baraccopoli e a far parte di una banda di ragazzi che pensano a se stessi e a cercare soldi, rubandoli, senza pensare alle conseguenze per se stessi e per gli altri. Qualcosa nella vita di Tsotsi cambierà e si renderà conto che dalla vita ci si può aspettare di tutto…
Da questo film ci possiamo aspettare che il protagonista parli e che faccia immensi discorsi, ma caso vuole che il nostro Tsotsi parli soprattutto tramite gli occhi; questa scelta del regista può sembrare un po’ azzardata, ma si è rilevato molto efficace, perché fa pensare e hai la possibilità di immedesimarti meglio nelle vicende, e in quello che il protagonista prova dentro di sè in determinate situazioni (ottima interpretazione di Presley Chweneyagae nel ruolo di Tsotsi).
Non conosco altri film di questo genere e se l’avessero trasmesso in tv, forse, non lo avrei visto, ma mi sarei persa un film bello, pieno di emozioni e soprattutto un film molto adatto per le persone che provano compassione per gli altri e che sono altruiste, perché questo film ti regala immense emozioni. Il film è accompagnato da una musica di tensione che ti tiene con il fiato sospeso fino all’ultima scena.
Si possono dare varie interpretazioni del senso di questo film, dicendo che, forse, è stato girato per farci capire che molti problemi non capitano solo alle persone che vivono nelle grandi città ma anche a quelle che vivono nelle baraccopoli e sono ignorati, e non si pensa che nel loro passato si nasconda un’infanzia atroce, vissuta senza affetti familiari; infatti il punto fondamentale di questo film può essere la famiglia, perché, se ci pensiamo bene, questo ragazzo se avesse avuto una famiglia che lo avesse istruito e amato avrebbe fatto quello che ha fatto? No, quindi noi molto spesso ci lamentiamo di avere dei genitori troppo all’antica, che non ci fanno fare nuove esperienze e noi ci lamentiamo sempre, ma se facciamo un’osservazione accurata forse ci accorgiamo che se non avessimo avuto una famiglia che ci sostiene sempre e che ci dà vitto, alloggio e amore noi saremmo come questo ragazzo che fa le cose senza pensarci e che non immagina che anche altre persone possano soffrire per le sue cavolate.
Quindi dobbiamo essere grati di quello che abbiamo.

Roberta Zucca, II B ped.

Ricordi del passato

Era il temporale più violento a cui avesse mai assistito, la pioggia urtava contro le finestre, i tuoni risuonavano in tutta la casa come urla e una bambina stava rannicchiata sotto le coperte, i riccioli sbucavano fuori dal lenzuolo e gli occhi erano serrati per la paura; non vedeva l’ora che quel trambusto cessasse.
Passò qualche ora prima che riuscisse ad addormentarsi, i suoi pensieri galleggiavano in uno spazio interminabile, riusciva a scorgere i visi dei suoi genitori che la rassicuravano per il suo primo giorno di scuola:
“Piccola mia, vedrai che andrà tutto bene, non hai nulla di che preoccuparti” le diceva la madre mentre le dava un buffetto sulla guancia; lei girò il capo verso il papà che rimase burbero e impassibile a guardarla, ma giurò di aver visto un sorriso tenero sotto ai grandi baffi.
Con innocenza gli tirò la manica della camicia per farlo inchinare verso di lei e gli diede un bacio sulla guancia, lui le sussurrò “giudizio, mi raccomando” e senza dire altro tornò alla macchina.
I suoi pensieri tornarono ad un’altra scena, i genitori stavano litigando il giorno di natale e lei era seduta in un angolo della stanza, piangendo.
Ma ecco un altro flash-back, lei e la sua migliore amica sdraiate sul tappeto guardavano il fumo dell’incenso acceso dileguarsi nell’aria, che prendeva forme diverse, cantavano e scherzavano…
Ora si trovava in classe, i compagni l’additavano e la professoressa non diceva niente per farli smettere, la sua amica era seduta nel banco e assisteva alla scena in silenzio…
Si trovava di nuovo in camera sua, la luce soffusa illuminava a malapena il suo viso, che riflesso nella specchio la osservava con sguardo torvo, quasi di sfida, ma che lasciava trasparire terrore allo stato puro; non era più una bambina, ma una ragazza, l’immagine che vedeva era solo un banale ricordo di ciò che era stata, andava via via a confondersi con le tenebre che la circondavano, i contorni erano spariti, ma restavano ancora quegli occhi, freddi come il ghiaccio, che la fissavano con furia, carichi di dolore e di odio.

Cadere giù

17 anni. Una vita buttata così. Non aveva chiesto di nascere, non aveva chiesto la vita, la luce.
Un’infanzia felice, serena, tranquilla, dove solo i giochi contavano.
Poi si cresce, poi iniziano i problemi e le difficoltà.
Poi la tragedia. Un giorno come tanti, la pioggia cadeva fitta;
– Sì tesoro sono in strada, arriverò tra qualche minuto -.
– Muoviti papà, qui ci sono già tutti, hai comprato la torta e il mio regalo? –
– Sì certo, ho preso tutto… ci vediamo tra un po’… –
Il piede calcò d’istinto l’acceleratore. Non poteva mancare al compleanno di sua figlia… non poteva.
La pioggia cadeva fitta, solo un tonfo e niente di più…
Luci, suoni, urla…
Non poteva mancare a quel compleanno, ma fu costretto a farlo.
Fu un duro colpo per Laura quando apprese la notizia.
Lei non aveva chiesto di nascere.
Non cercò conforto, coccole o dolci parole, il mondo le aveva tolto ciò che più amava.
Che ci faceva ora qui? Che senso aveva la sua esistenza?
E così cresceva, veloce, bellissima e triste.
Così cresceva sola ed irrequieta.
Arrabbiata col mondo, sì arrabbiata con la vita, arrabbiata con lui perché era andato via troppo presto.
Un vuoto interiore incolmabile, così giovane ma già così sola, con gli occhi spenti affrontava la vita, con la svogliatezza di chi ha perso tutto, sopravviveva e nulla chiedeva in cambio se non di poter star sola, sola per sempre.
Nessun amico che potesse confortarla, nessun ragazzo che potesse rassicurarla, non voleva nessuno accanto a sé ma disperatamente cercava un aiuto, un appiglio… e lo trovò.
Non parlava, non dava consigli, non giudicava, non urlava contro dicendoti “fatti forza, puoi farcela”. Era così apparentemente innocua, così candida da sembrare benevola.
Quell’ipocrita felicità le bastava, si accontentava di star bene per mezz’ora, s’illudeva che presto tutto si sarebbe aggiustato e non si preoccupava di dire “smetto quando voglio”, perché smettere non le importava, perché non le importavano le conseguenze, il futuro… solo il presente contava, solo il disperato desiderio di trovare un modo per continuare a sopravvivere, solo la stancante voglia di avere un motivo per non morire, per non cadere giù.

In fondo era solo una bambina, una giovane adolescente bisognosa non di attenzioni particolari, ma di un po’ di pazienza, di qualcuno che con coraggio sapesse entrare nel suo cuore, nella sua mente e le permettesse di far fuoriuscire la rabbia e la disperazione .
Piangeva in silenzio, piangeva piano, piangeva lenta.
La pioggia cadeva fitta, non aveva più voglia di niente, nulla le importava… ora ciò che più desiderava era andare lontano, via da ogni cosa che ormai aveva perso significato.
Le campane suonavano meste e lentamente la folla si dirigeva a dar l’ultimo saluto.
In fondo siamo tutti di passaggio,
ma era troppo presto.

Consuelo Trogu

Ombre sotto i cipressi

Giardino spoglio in novembre, è venerdì sera.
Manuela non si curava delle sfumature rosse sulle foglie croccanti, studiava, invece, l’umidità della terra ed i suoi ospiti, piccoli insetti e lombrichi, piccoli e viscidi vermiciattoli.
Alla sua finestra, accostata al davanzale impolverato, poggiava il viso sul dorso della mano sinistra, nascosta dietro enormi occhiali, occupava il minimo spazio di una stanza dalle pareti ingiallite, stropicciate di crepe e dall’aria irrespirabile.
Non era la sua camera, lei viveva presso la stazione, un cupo monolocale squallido, stretto, trascurato, vi lasciava i suoi oggetti,i suoi abiti, ma non la sua presenza.
Manuela si stabilì su quel davanzale, mangiava al davanzale, parlava dal davanzale, pensava sul davanzale e moriva e giaceva ogni giorno nel davanzale.

La piccola stanzetta dell’ospizio, fredda d’inverno, calda d’estate era il solitario focolare d’un vecchio rimasto solo, vedovo e senza figli, il signor Antonio Alberti, lavorava in portineria con sua moglie prima ancora che si sposassero e in seguito divenne operaio.
Non gli era mai piaciuta la vita in fabbrica, priva di relazioni sociali, ripetitiva e meccanica.
Dopo la pensione sognava la campagna e la moglie al suo fianco, ma dopo la pensione non ebbe più moglie né campagna.
Novantatre anni gravavano sugli occhi vispi e accesi, sulla schiena curva e le mani rigide.
Le uniche amorevoli cure che riceveva erano quelle di Manuela, ella al mattino entrava di soppiatto, spalancava tende e persiane, il signor Alberti gradiva la luce, amava inondarsi di luce, lei lo svegliava con un sussurro e gli offriva una deliziosa e abbondante colazione.
Trascorrevano la mattina tra passeggiate in giardino e tenere conversazioni, Manuela leggeva per lui dei libri o canticchiava canzoni.

Si era instaurato fra i due un rapporto molto intimo,quasi filiale, l’anziano adorava dispensarle consigli e lei sebbene non li mettesse in pratica li assorbiva avidamente.
Antonio si accorse presto della complessità e della stranezza della ragazza, gli si stringeva il cuore a vederla sempre là, con lui o assorta alla finestra di quella camera, adorava la sua compagnia ma gli pareva di derubarla del suo tempo e della sua età.
Lui sapeva bene che quell’età è la migliore, e non torna più, l’età della spensieratezza, delle piccole sciocchezze, l’età dell’amore e delle notti insonni.
Le notti di Manuela però, insonni lo erano.

Nell’ospizio i due facevano molto parlare di loro. I soliti invidiosi e cinici commenti di anziani inaspriti dalla vecchiaia e dalla solitudine. Il loro rapporto non era neanche simile a quello fra gli altri infermieri o volontari e gli ospiti del centro; albergava freddezza, professionalità ed indifferenza.
“La signorina Manuela sa il fatto suo, non presta a me le sue attenzioni, se ne guarda bene dallo sprecare il suo tempo con chi non può ricambiare il favore!” insinuò la signora della stanza accanto a quella di Antonio.
“A me non interessa – rispondeva, seccato il suo interlocutore, Giovanni, uomo orgoglioso che odiava i pettegolezzi – tu, ti porterai il veleno e l’invidia nella tomba,Elvira, Antonio è un uomo solo faccia quello che crede dei suoi soldi, sempre meglio che vadano a te, lei è giovane, tu cara, non lo sei più da un bel pezzo, ed ora lasciami fare, le carte mi danno più soddisfazione di te, guardati la tv!”

Come Elvira in tanti pensavano che Manuela fosse un’opportunista a caccia di dote, e non lo faceva cercando ricchi uomini da sposare, ma aspettava pazientemente che il caro ed amato “padre” o “nonno” se n’andasse all’altro mondo.
Il signor Alberti aveva sì messo qualcosa da parte, e molto probabilmente sarebbe stato felice di lasciare i suoi averi a quella ragazza così sola, così triste, così affabile e irrequieta, Alberti notava e si dispiaceva del suo malumore, benché lei cercasse di nasconderlo.
Manuela ignorava del tutto le ipotetiche intenzioni del suo amico, e non capiva cosa avessero da cianciare alle sue spalle, in ogni caso lei non sentiva, non sapeva e continuava a far quanto si sentiva.

Durante le sue meditazioni alla finestra dell’anziano pensava al giorno in cui lei avrebbe dormito in quel letto, non ne avrebbe voluto nessun’altro, ormai lo conosceva così bene, ne conosceva inclinazioni e scricchiolii, non pensava come le altre ragazze al corredo del letto nuziale, fantasticava sul suo ultimo giaciglio, dal quale avrebbe osservato ancora e fino alla sua ultima ora quel cipresso che adombrava il cortile, il cipresso che lei e il suo compagno avevano adottato.
Stesso albero,diversi ricordi.
Spesso si perdevano in interminabili silenzi a guardarlo entrambi, fra muti pianti soppressi e teneri sorrisi trattenuti.
Non si confidarono però quali pensieri ebbero a riguardo, i loro discorsi non si spingevano mai oltre argomenti che interessassero cultura generale o eventi poco significativi della loro esistenza, potevano parlare di qualche viaggio, o avvicinarsi alla politica, alla musica, ai libri, Antonio raccontava della guerra, ma tacevano ciò che avrebbero voluto urlare.

Ella era mite, pacata, attenta, aveva venticinque anni, un sorriso fioco, teneva i capelli con una grande pinza fucsia, erano disordinati, mangiava le unghie ed era sempre vestita di nero, sempre vestita a lutto, indossava abiti larghi che non facevano intuire le sue forme delicate, quegli abiti esprimevano la pena che sentiva per il suo corpo, per la sua tacita commiserazione e per la mondanità.
Nessuno conosceva di lei niente di più del suo nome, lei stessa per riconoscersi la mattina appena si alzava, doveva presentarsi allo specchio e dirsi chi era, così ogni giorno ristrutturava la sua vita senza però mai riuscire a darle un senso.
Dietro i suoi occhiali e dentro i suoi vestiti c’era il suo passato.
Manuela non conobbe mai sua madre, e suo padre se ne andò presto, rimase sino all’età di diciotto anni in un orfanotrofio, le mancarono subito le attenzioni e le cure di una famiglia, si legò per questo ad un giovanotto, Alessandro, aveva la sua stessa età, in lui vide un amico, un fratello, un confidente, un complice, e per così dire, un piccolo “amante”, a lui diede i suoi primi baci ed i suoi unici baci.
Maschi e femmine non si potevano incontrare se non alla mensa e nelle ore ricreative, ma loro fecero in modo che le ore ricreative raddoppiassero e rubavano alla notte qualche dolce attimo in più, per scoprirsi, per abbracciarsi.
Fuggivano dalle loro stanze e si incontravano puntualmente alle undici e mezza ai piedi di un cipresso sul cortile posteriore, il venerdì poi, stavano a giocare a parlare e a sognare tutta la notte, fino al levarsi del sole.
Si costruivano una vita insieme e di lì a poco avrebbero realizzato i loro progetti.
Quel cipresso ascoltò le loro risate, spiò i loro baci, sentì le loro parole, carezzò la loro pelle.

Un venerdì notte, a novembre, nevicava, i due giovani uscirono comunque, quel giorno Alessandro le disse che se ne sarebbe andato, un suo lontano zio trovò lui lavoro, le disse che lo faceva per lei, se ne sarebbe andato per trovare casa e condurla con sè, quella stessa notte lui varcò l’inferriata di quel tetro edificio, voleva portarle delle castagne, lei le adorava.
Alessandro quella notte non tornò con le castagne.
Quella forte nevicata causò numerosi incidenti per le strade, e quella notte Alessandro ne rimase vittima. Travolto da una macchina morì sul colpo, la neve non fu più candida e lieve, la neve divenne sporca e rossa, traguardo d’avvoltoi.
Manuela presto abbandonò l’orfanotrofio, si trovò nel mondo frenetico e crudele, più sola che mai, senza Alessandro e senza più se stessa.

Il suo corpo venne sepolto nel cimitero della città, ai piedi d’un cipresso, ella ne abbracciava il tronco, ne baciava la corteccia, compagno, e amante divenne quel cipresso a guardia del suo amato. Lo chiamava col suo nome.
Una foto ingiallita dietro un vetro sporco, non le rimase che quello di lui, e quello venerava più di qualsiasi altra cosa.
Alberi e fiori, terra e marmo la sua casa, la loro casa.
Le chiavi in mano a custodi sconosciuti, l’ingresso libero agli estranei.
Lei lo amava,fedele come un lupo, s’accasciava, leccava il suo dolore, sola, ma a lei piaceva star sola, con lui che l’accarezzava nel vento, le parlava nelle foglie, la baciava nella pioggia.

“Manuela sai perché gioisco di fronte a quest’ albero?”
“No signor Antonio, mi dica…”,
“Per l’amor del cielo, basta con questo ‘signor’, figliuola, permettimi di dirti che per me sei la figlia che non ho mai avuto, non chiamarmi papà, per rispetto al tuo che non ho mai avuto il piacere di conoscere, ma almeno Antonio concedimelo…”
“Mi scusi Antonio, ha ragione…”
“Manuela? e non darmi del lei…”
“Va bene, perdonami…”
“Ma sì… dicevo… ah, il cipresso, è così alto, pare voglia arrivare al cielo e alle beatitudini che promette. Da giovane, prima di sposarmi vedevo segretamente mia moglie, e luogo dell’appuntamento era un cipresso nascosto nel giardino della villa presso cui la sua famiglia lavorava, è ai suoi piedi che le ho chiesto di sposarmi e lei mi ha detto sì.”

Manuela abbozzò un sorriso, il respiro le mancò e il sangue quasi le si coagulò nelle vene.
Non rispose, non pianse, non s’alzò, impietrita ed immobile folgorava il cipresso e non ebbe il coraggio di voltarsi verso Antonio.
Alberti non seguitò, capì che Manuela non s’accese per quella rivelazione, tutt’altro, s’accorse che le sue parole avevano eroso o destato qualcosa di spiacevole, anzi, qualcosa di fortemente doloroso.
Fu ancora silenzio, questa volta un silenzio pesante, fangoso, un silenzio folle.
Manuela se ne andò, lo salutò con un bacio sulla fronte, lo lasciò alla finestra e sbatté la porta.
Antonio mortificato non si mosse, aveva ferito chi più gli era cara, la gioia con cui ricordava sua moglie mutò in senso di colpa per Manuela.

Era venerdì sera, novembre, fuori nevicava, Manuela dal suo appartamento sentiva sferragliare il treno, quella notte, però, lo aspettava, agitata e ansante, voleva farsi rapire e viaggiare sul suo fischio.
Veloce e appesantita spalancò le finestre, le uniche due della stanza, risanò i suoi polmoni, permise alla luce dei lampioni di entrare, e volentieri l’accolse; si gettò poi sull’armadio, cercò una dimenticata stampa di Degas, adorava Degas negli anni dell’orfanotrofio, per ore guardava quell’imitazione nel salone, adorava la grazia di quelle ballerine, “Ballerine sulla scena”, una ballerina in atteggiamento di curiosa scoperta, i piedi in terza posizione a testare il palcoscenico, sfumature verdi sullo sfondo.
L’imminente movimento, il principio della danza eliminavano l’immobilità che l’opprimeva, il rosa pastello del tutù e delle punte, era il colore della florida fanciullezza femminile.
Si nutriva dei fiori che ornavano l’acconciatura di quella ballerina.
Degas, come un profumo svaporato non sortì più il suo effetto, Manuela odiava quelle ballerine, non ne distingueva più i colori; rosso, vedeva solo il rosso, lo vedeva sulla stampa, in casa e addosso, se lo sentiva colare sulla pelle, denso e odoroso.

L’invadente trillo del campanello la destò dall’inquietante visione che costruiva, “Il signor Alberti non sta bene, si rifiuta di assumere le medicine e non mangia, Manuela ci pensi lei per cortesia, a lei presta ascolto.” Così un’infermiera si presentò nel suo appartamento.
“Mi dia solo un attimo, la raggiungerò al più presto, prego, torni pure alle sue faccende.La .br />

Davanti allo specchio sciolse i capelli,come piacevano ad Alessandro, tolse gli occhiali, si riscoprì adolescente e s’inventò adulta.
Trovò Antonio all’ombra del cipresso, s’inginocchiò e posò il capo sul suo grembo, egli fu lieto di vederla là, accanto a lui e si commosse.
Manuela gli spiegò, gli disse cos ‘era per lei quell’albero, pianse tanto e pianse a lungo.
Insieme pregarono, l’un con l’altra si consolarono, Antonio mangiava neve, Manuela inghiottiva cenere.
Salirono su, la ragazza diede le medicine al vecchio, lo nutrì, lo aiutò a stendersi e lo coprì.
“Papà, non c’eri quando piangevo e non c’eri quando scappavo. Non mi hai mai chiesto cosa avrei voluto fare da grande, non mi hai mai baciato sulla fronte.”
“Manuela cara, se solo ti avessi incontrata prima, avrei asciugato le tue lacrime, ti avrei rincorsa, ti avrei aiutata a realizzare i tuoi sogni, e non uno, ma mille baci avrebbero coperto la tua fronte.”
Avevano talmente bisogno di stringersi che fingevano una parentela, era vera finzione o finta realtà, ciò non importava, a loro stava bene così.

Si assopì il signor Alberti, e Manuela dopo aver salutato il loro albero, durante la notte, insonne come altre, rassettò la stanza, piegò gli indumenti, ne preparò di nuovi e li posò sulla poltrona, scelse i più eleganti ed i più sobri, era una ragazza pignola nonostante trascurasse se stessa.
Scivolò silenziosa in infermeria, trasse una siringa da un cassetto, si soffermò dubbiosa sulla sostanza da introdurci.
La scelta fu presto fatta. Aria. L’avrebbe riempita d’aria, di quella stessa che insieme respirarono, di quella tetra e tersa aria che li abbracciava e li divideva.

Tornò da Antonio, lo osservò dormire, ne respirò il fiato, pesante e grave, non si muoveva il signor Alberti durante il sonno.
Impotente di fronte al destino che la travolse volle essere qualcosa di più per quell ‘uomo, per quel vecchio, per quel padre.
Lo amava svisceratamente ed altrettanto lo odiava, pretendeva le appartenesse e sperava si allontanasse.
Il cipresso, era lui a parlare, a ordinare, Alessandro le comandava di farlo, per lei, per lui, per loro.
Non tollerava Manuela, che il padre da cui era stata abbondata avesse ricordi felici, aveva tanto sofferto da piccola e continuava a soffrire; non sopportava che quel cipresso innevato per lui si colorasse di gioia e per lei di disperazione, doveva pagare, qualcuno doveva pagare, suo padre lo avrebbe fatto, il signor Antonio Alberti.
Pensò questo mentre intonava una ninna nanna, gli accarezzava i capelli e gli baciava le labbra.
Aprì la finestra, fece entrare Aria. “aria di neve e fiocchi si posano sul mio davanzale, trespolo di un uccello in gabbia, ali tarpate, becco serrato, e tu papà, come sarai contento fra poco, lo saremo entrambi.”

Scostò le coperte, prese il braccio di Antonio, all’ombra del loro cipresso che investiva la stanza, la mano di lei afferrò la siringa e bolle d’aria nel sangue.
Il cuore gli si arrestò, infarto.
Manuela avrebbe voluto guardarlo negli occhi un’ultima volta, non poté, i suoi occhi sognavano.
“Buon viaggio papà”.
Indossato il soprabito scese, salutò il cipresso e guardò la finestra dalla quale si affacciava sempre.
Orfanotrofio e cimitero le ultime mete.
Al settimo anniversario, in un venerdì di novembre, bagnò di lacrime la foto ingiallita, perché Alessandro non la vedesse si spostò, sorrise Manuela, niente più stranezze, niente più bisbigli, un nodo di cravatta e…

Sintesi

Manuela è una ragazza sola,perde l’identità e scivola nel tunnel dell’ossessione e della follia.
Antonio Alberti è un anziano solo ma ancorato alla vita e ai suoi ricordi.
Ciò che per Manuela è triste e doloroso per Antonio è felice.
Un oggetto, due interpretazioni e differenti realtà.

Nel racconto ho voluto sviluppare alcuni aspetti significativi della poetica pirandelliana.
L’alienazione e la perdita,l’incomunicabilità e la verità illusoria.
I protagonisti si trovano in una sorta di sospensione della realtà, vite irrisolte e spezzate, rose da un turbamento interiore che non lascia spazio in nessun modo alla catarsi.

Vanessa Pia

Una breve riflessione sulla programmazione educativa e didattica

Non è mia intenzione sostituirmi al lavoro di psicologi o pedagogisti! Questa breve relazione ha come unico scopo quello di fornire una traccia di programmazione e alcuni suggerimenti operativi, perché i libri che sviluppano tali argomenti o sono troppo tecnici o si risolvono in un astratto verbalismo. Si è ben lungi dal suggerire una soluzione al dibattito in corso, anche perché i confini interpretativi della programmazione sono alquanto labili e soggetti a continui aggiornamenti ed aggiustamenti, a livello teorico, dai ricercatori e dai pedagogisti; a livello operativo, dall’esperienza e dalle riflessioni d’ogni singolo docente. Oggi, tra l’altro, si sta addirittura parlando di superare i limiti dalla programmazione aprendo una nuova fase dell’organizzazione scolastica tale da abbandonare l’attuale, e comoda, posizione positivista. È stata una visione scientifico-positiva quella che ha voluto razionalizzare, attraverso obiettivi, tempi, modi etc. l’attività dell’insegnante. Anche uno sprovveduto sa che qualsiasi attività umana deve essere organizzata ed orientata verso un fine, altrimenti sarebbe un agire a caso, come dimostra la storia della pedagogia dai gesuiti a Comenio, a Herder. Prima di procedere oltre è opportuno chiarire, concettualmente, i seguenti termini: programma e programmazione.

Programma. E’ l’insieme dei contenuti culturali da trasmettere ed è ordinato secondo una struttura che si adatta alle diverse fasi di sviluppo cognitivo degli alunni ed ha lo scopo di formare gli alunni e di prepararli agli studi universitari; inoltre la “funzione docente realizza il processo d’insegnamento/apprendimento volto a promuovere lo sviluppo umano, culturale, civile e professionale degli alunni sulla base delle finalità e degli obiettivi previsti per i vari ordini e gradi dell’istruzione” [1] .

Il programma Ministeriale era detto prescrittivo in quanto obbligatorio, nonostante il DPR 417/74 riconoscesse l’autonomia e la libertà del docente. Alcuni docenti continuano a tirare in ballo il programma “da sviluppare” giustificando così l’assenza di pause o un rallentamento o una rivisitazione dei contenuti già svolti ma non appresi dagli alunni, ma ciò non può più essere una giustificazione, giacché le istituzioni scolastiche oggi sono in regime di autonomia, e quindi anche di autonomia didattica. L’autonomia è stata introdotta con la legge n. 59 del 1997 comma 9 art. 21, conosciuta come legge Bassanini. Vigendo il regime di autonomia è altresì chiaro come vengano meno i programmi “ministeriali”, ma acquistano maggiore importanza i programmi dell’istituto correlati al territorio e alle richieste dell’utenza scolastica.

L’autonomia scolastica consente:
– la più ampia libertà di progettazione didattica;
– il raggruppamento di discipline in aree o ambiti disciplinari;
– l’offerta di insegnamenti opzionali o aggiuntivi.

Ricordiamo il D.Lgs 59/2004, l’art. 9 del DPR n. 375/99 che prevede la possibilità di dividere il curriculum dell’alunno in due quote, delle quali una può definirsi nazionale, pari all’85% del monte ore annuale, e di un 15%, che può essere impiegato dalla scuola per proprie iniziative autonome[2].

Lo stesso Ministro scrive:

L’autonomia scolastica e l’interazione, nei contesti locali, tra le diverse autonomie, costituisce il quadro di riferimento principale dei processi di innovazione e di riqualificazione di cui l’intero sistema educativo ha bisogno. Imporla dall’alto, con atti dirigistici, legislativi o amministrativi, sarebbe un grave errore, condannato in partenza all’incomprensione e all’inefficacia. Perché sia possibile mettere le istituzioni scolastiche nelle condizioni di sviluppare la loro autonomia educativa e didattica, senza che si passi dal centralismo burocratico allo spontaneismo improduttivo, vanno definite con precisione le competenze del centro, che rimangono essenziali, e che, in termini generali, sono esplicitate all’art. 8 del DPR n.275/’99. (…).
All’istituzione scolastica spetta l’elaborazione del Piano dell’Offerta Formativa, secondo quanto stabilito dal Titolo I cap. III del citato DPR n. 275/’99 (titolato, significativamente, “Curricolo nell’autonomia”). Nella predisposizione del POF e del relativo curricolo didattico si manifesta appieno l’autonomia progettuale, didattica, organizzativa, di ricerca e sviluppo che è propria dell’istituzione scolastica, un’autonomia funzionale alla piena valorizzazione e realizzazione della persona umana, con le sue relazioni, così come richiamato tanto dalla normativa sull’autonomia quanto dalla successiva legge n. 53/’03.

Programmazione. Con la parola programmazione, in linea generale, s’intende sviluppare, puntualizzare, mettere in opera, una serie d’interventi coordinata che concorrono a conseguire, attraverso efficienza, efficacia economicità, un obiettivo. Sul piano strettamente didattico la programmazione [3] permette al docente di superare l’improvvisazione, la causalità operativa e di organizzare in modo razionale e coerente gli interventi educativi, di organizzare i contenuti e le diverse attività scolastiche, verifiche comprese. Consente, inoltre, di “tradurre” le discipline culturali in materie da insegnare e da apprendere, e consente di conciliare le regole della didattica in generale con le condizioni di insegnamento-apprendimento effettivamente riscontrate. Con la programmazione, quindi, si adeguano i programmi alla classe, s’individuano i collegamenti interdisciplinari, e si scelgono le metodologie che consentano effettivamente di facilitare il processo di apprendimento e di crescita, oltre che culturale, emotiva, relazionale e civile.
I riferimenti normativi possono essere reperti nel DPR 416/74 e nella L. 517/77 art. 2, 7. Alla formulazione della programmazione concorrono tutti i docenti attraverso la programmazione del piano annuale delle attività contenute nel POF, in una seconda fase, i consigli di classe e i singoli docenti renderanno operativa la programmazione individuando contenuti, metodi e tempi e modalità di verifica. È quindi l’attività programmatica del collegio docenti ad avere un ruolo di fondamentale importanza operativa perché procede nell’ individuare, attraverso l’adozione del POF,
gli obiettivi e le finalità educative (programmazione educativa) dell’istituto, obiettivi naturalmente coerenti con le finalità Costituzionali e le leggi vigenti; In un secondo momento i dipartimenti individuano i contenuti da impartire e gli obiettivi disciplinari, infine i consigli di classe e i singoli docenti attuano la programmazione educativa, didattica e disciplinare.

La ricerca pedagogica definisce così la programmazione:

La programmazione è dunque un tipo d’elaborazione di contenuti e metodi didattici che spetta ai soggetti di insegnamento, ma non con criteri soggettivi: utilizza, infatti, criteri scientifici di validità generale, in altre parole si serve di regole e di leggi comuni a tutte le situazioni di insegnamento-apprendimento e quindi di tutte le condizioni scolastiche. [4]

Il termine programmazione viene usato anche per richiamare una determinata tecnologia della didattica:

La programmazione (…) rappresenta una regolamentazione di un’attività secondo le tecnologie didattiche, vale a dire, un’organizzazione, una razionalizzazione ed una individuazione dei metodi e tempi di applicazione. [5]

Il soggetto che interviene utilizzando le metodologie didattiche, è l’insegnante, non l’insegnante racchiuso come una monade nella propria disciplina d’insegnamento, ma un operatore che interagisce con altri colleghi, programma per aree disciplinari, perché non esiste una programmazione che non sia collegiale. Purtroppo, la programmazione, continua a svolgere solo una funzione formale burocratica, senza attuare quella validità pedagogica per cui è stata pensata.

La programmazione come razionalizzazione deve avere scopi ben precisi. Il primo in assoluto è quello di conferire organicità, coerenza, efficacia al lavoro del docente; il secondo organizzare il lavoro così da sfruttare il tempo scuola; il terzo individuare i metodi e gli strumenti con cui conseguire gli obiettivi; il quarto e non ultimo, facilitare l’apprendimento. Se non consente lo sviluppo di queste procedure non è una programmazione didattica, ma solo burocrazia funzionale più all’istituzione che all’alunno. Dire “solo burocrazia” è riduttivo ma, non bisogna dimenticare che è anche burocrazia. Ogni attività di insegnamento è giustificata e fondata solo se programmata, in altre parole se è inserita in un piano di lavoro ad inizio anno scolastico e modulata sulle reali capacità degli alunni, perché non bisogna mai dimenticare che sono gli alunni i destinatari della programmazione e delle attività del corpo docente. L’assenza di una programmazione, oltre a rendere più difficile il lavoro dell’insegnante, disorienta la classe e le attività risultano dispersive e caotiche, spesso mal collegate l’una con l’altra. L’alunno è facilitato nell’apprendimento se sono ben chiari i punti di partenza ed i punti di arrivo, le procedure operative, se la programmazione è dotata di una coerenza interna, ed infine se effettivamente tiene conto del ” sapere degli alunni”. Personalmente aggiungo che la programmazione dovrebbe partire anche da una “idea della mente“, da una “teoria dell’apprendimento“, o meglio, da una consapevole “filosofia pedagogica” che contempli la persona umana nella sua globalità. Non si può certo chiedere ciò a ciascun docente, però si può pretendere che ciascun docente ponga in gioco la propria visione del mondo e dell’apprendimento. Certamente se si ha una teoria della mente e una teoria dell’apprendimento, o, dello sviluppo cognitivo, si potrà operare anche in linea con questi presupposti teorici, facilitando realmente il lavoro degli alunni.

Alcuni presupposti teorici sulla programmazione.

Si fa risalire a Ralph Tyler [6] il merito di aver dato avvio a quel settore di ricerca che va sotto il nome di teoria del curricolo, o anche della programmazione scolastica. Ritiene che “una programmazione didattica debba essere fondata su obiettivi precedentemente tradotti in comportamenti osservabili e misurabili; che altro sono i criteri di valutazione se non gli stessi obiettivi dell’apprendimento assunti come strumenti di verifica della loro realizzazione?
Per il Tyler la programmazione deve partire dall’analisi del contesto sociale, dai bisogni dello studente e dal patrimonio culturale, perciò implica una “scelta” dei contenuti e dei metodi e degli strumenti di verifica e con essi anche un ben preciso sistema di valori etici e politici. Non è opportuno addentrarci in questo campo che sarà oggetto magari di una ulteriore riflessione. I docenti delle materie scientifiche troppo spesso ritengono che la loro disciplina sia asettica, eppure cosa c’è di più conservatore del concetto stesso di “trasmissione dei contenuti“?

Il Tyler paga lo scotto di rifarsi esplicitamente al comportamentismo sia di Watson che di Skinner, ovvero di volere verificare i comportamenti oggettivamente osservabili, omettendo di fatto una “filosofia della educazione o una filosofia pedagogica” che stia alla base della programmazione. M. Pellery partendo invece da una riflessione filosofica sulla programmazione divide gli obiettivi educativi dagli obiettivi didattici [7]. Gli obiettivi educativi concorrono alla formazione globale della personalità umana, spaziando dall’aspetto cognitivo a quello relazione e affettivo; gli obiettivi didattici, invece, sono tipici di ogni disciplina. Il Pellery “giunge ad individuare due livelli di programmazione: una programmazione e educativa e una programmazione didattica, con la prima che adempie rispetto alla seconda, una funzione di guida”.
Se il Tyler e il Pellery incentrano la loro attenzione sulla pedagogia e sulla programmazione R. Massa ritiene che la pedagogia come scienza è da indicare nel suo essere come “metodologia” per cui le sue riflessioni teoriche vanno alla ricerca di una “autonomia della didattica”, ovvero delle procedure che la programmazione deve attivare per rispettare il processo evolutivo dell’alunno [8].

Ritorneremo in un secondo momento sulla didattica e sulle metodologie più comuni.

Le fasi della programmazione possono essere così descritte:

1. Presa d’atto della situazione di partenza
– Presentazione della classe
– Presenza di alunni diversamente abili
– Provenienza geografica
– Ripetenti
– Nuovi inserimenti
2. Accertamento dei prerequisiti
– Uso di metodi e mezzi come il questionario, il test
3. Obiettivi:
– Educativi
– Trasversali
– Disciplinari o didattici
4. Contenuti
– Scansione temporale dei contenuti
5. Moduli didattici lineari o trasversali
– I Moduli didattici sono composti da unità didattiche
6. Metodi
– Mezzi
7. Verifica
– Valutazione
8. Attività di recupero
9. Relazione finale e miglioramenti ottenuti ed accertati rispetto alla situazione di partenza

1.§ Accertare la situazione di partenza della classe è uno dei momenti più difficili, perché dalla prima impressione [9], dall’analisi dei risultati delle verifiche, tese a conoscere il livello generale culturale, le competenze e le capacità, scaturiscono gli elementi che concorreranno a determinare i contenuti, i tempi e gli obiettivi. Una conoscenza affrettata della classe, o strumenti di verifica inadeguati, possono rivelarsi estremamente dannosi, sia sotto il profilo relazionale, sia nello sviluppo del processo insegnamento-apprendimento. È necessario, quindi, “disporre di metodi di verifica che permettano di strutturare la programmazione in modo coerente e organico“, palesando le effettive capacità e potenzialità degli alunni. Oggi, l’editoria provvede a ridurre le difficoltà offrendo spunti, strumenti di verifica, allegati ai manuali, per determinare la situazione di partenza, attività che prima era lasciata all’inventiva del docente. Lo scopo di una attendibile conoscenza di una situazione di partenza consiste nel “ridurre le impressioni personali, ed individuare, per quanto possibile, ed al di là di uno stretto soggettivismo, le variabili dipendenti e le condizioni “oggettivamente rilevabili” della classe. Si sa che non è possibile eliminare la dimensione soggettiva, ma è possibile limitarne il campo d’azione, ricorrendo a strumenti e procedure tali, che se pur non rilevano dati oggettivamente validi, forniscono comunque dati ragionevolmente attendibili.
Accertare, sul piano generale, le condizioni d’ingresso di un alunno è semplicemente utopia, però possono accertati, interessi, abilità, competenze conoscenze, stili di linguaggio, gli stili cognitivi, le competenze culturali, cioè tutti quegli elementi che concorrono a definire il quadro d’ingresso o la situazione di partenza. L’insegnante che intende intraprendere una attività didattica su dei precisi contenuti deve limitare l’accertamento esclusivamente ai prerequisiti necessari per potere affrontare i contenuti.
L’accertamento dei prerequisiti “una volta che siano stati individuati dall’insegnante, sulla base della letteratura esistente o sulla base all’esperienza diretta e personale può avvenire in due modi: uno attraverso tecniche rigorose con strumenti quali il test di profitto che portano a risultati quantificabili; l’altro più tradizionale attraverso strumenti quali il colloquio o il testo scritto, senza esprimere alcuna valutazione di profitto. L’accertamento dei prerequisiti necessari per strutturare in modo organico e coerente i saperi non è altro che “una diagnosi in grado di evidenziare uno “stato”, non di giudicare un comportamento e tanto meno di impedire uno sviluppo futuro [10], anzi deve poter “agevolare” uno sviluppo futuro.

2.§ Un problema non meno rilevante è rappresentato dagli obiettivi. Come sappiamo gli obiettivi sono educativi e didattico disciplinari, gli uni contemplano lo sviluppo complessivo della personalità e sono espressi nel POF, gli altri vengono individuati dai dipartimenti, dai singoli consigli di classe e dai singoli docenti.
Con l’espressione obiettivi didattici si indicano esclusivamente i comportamenti degli alunni che l’insegnamento è in grado di suscitare e debbono poter essere verificati al temine di un ciclo di insegnamento. Debbono perciò essere formulati in maniera chiara e comprensibile dall’alunno, senza ricorrere all’uso di termini equivoci o che possono dar luogo a fraintendimenti. Debbono anche tenere conto dello sviluppo cognitivo dell’alunno e del fatto che l’apprendimento non è mai sincronico, cioè non avviene secondo i processi temporali impostati dal docente, ma secondo ritmi e tempi di apprendimento propri dell’alunno, spesso anche influenzati dai comportamenti e dalle abitudini del gruppo famigliare. È anche chiaro che il processo di insegnamento-apprendimento deve potere ridurre i tempi di assimilazione e di elaborazione dei contenuti, altrimenti non si avrà nessun miglioramento né culturale né personale, né relazione o affettivo. Se un alunno studia, ma studia secondo i suoi ritmi e non riesce a ridurre i tempi di assimilazione è anche chiaro che pur avendo buone capacità cognitive di partenza, le stesse non verranno affatto migliorate. Gli obiettivi debbono essere calibrati sugli alunni e proporzionati alla situazione di partenza rivelata. Obiettivi irraggiungibili finiscono con lo scoraggiare l’alunno e spesso condurlo all’insuccesso. Devono perciò essere graduali, partire dal facile al complesso, dal globale all’analitico, e debbono essere strutturati in modo coerente. Ecco alcuni esempi di obiettivi:

Obiettivi metodologici: L’alunno deve essere capace di
– organizzare il proprio lavoro;
– risolvere correttamente un problema;
– preparare una relazione;
– costruirsi il proprio metodo di studio.

Obiettivi tecnici: L’alunno deve essere capace di
– padroneggiare la lingua parlata;
– partecipare alle discussioni;
– esporre i risultati di un lavoro;
– sapere scrivere
– ascoltare gli altri;

Obiettivi di comportamento: L’alunno deve essere capace di
– curiosità e stupore;
– creatività;
– pensiero critico;
– autonomia di giudizio [11].

Obiettivi legati ai saperi disciplinari vanno individuati all’interno degli argomenti che si intendono affrontare in classe.

3.§ Moduli didattici.
H-C.A. Chang afferma che i moduli didattici corrispondono alle unità didattiche: il termine modulo (dal lat. modulus, diminutivo di modus, misura, regola, modello) nell’ambito didattico viene utilizzato per indicare un insieme di esperienze di apprendimento organizzate generalmente in forma di unità didattica, riferite ad una disciplina o ad alcune discipline di studio, con l’indicazione precisa degli obiettivi da raggiungere, dei prerequisiti e della durata complessiva di svolgimento, con la possibilità di innestarvi ulteriori argomenti attigui. Fatta questa doverosa premessa vediamo ora come si organizza una U.D. L’unità didattica si identifica con la strategia che l’insegnante è chiamato ad inserire nella sua programmazione, e rappresenta una “frazione”, un momento del processo di apprendimento individuato.
Secondo il Frabboni, l’U.D. deve avere una identità teorica ben delineata e precisamente deve possedere le seguenti caratteristiche fondamentali:

– Chiarezza cognitiva;
– Autosufficienza cognitiva;
– Interconnessione cognitiva [12].

L’U.D. è individuata dal docente all’interno dei contenuti da svolgere, e deve essere modulata sulle capacità e sui tempi di apprendimento degli alunni.
Chiariamo. Se in filosofia si intende affrontare un percorso storico che vada da Hegel all’irrazionalismo dell’800, possono essere individuate tre U.D.: una sul Romanticismo, una seconda sull’Idealismo ed Hegel, una terza sulla reazione all’idealismo da parte dei pensatori irrazionali, Kierkegaard o Schopenhauer. Gli argomenti all’interno dell’U.D. vanno individuati secondo i criteri di: gradualità, sequenzialità ed espansività cognitiva [13]. Lo schema operativo di una U.D. può essere così riassunto :
A. Individuare il contenuto minimo del programma;
B. Attività di insegnamento-apprendimento;
C. Obiettivi;
D. Metodi;
E. Tempi;
F. Verifica formativa;
G. Eventuale attività di recupero;
H. Verifica complessiva o sommativa.

Nel predisporre la programmazione il docente dovrà prestare particolare attenzione a strutturare le attività di recupero per quanto disposto dal D.M. n. 42 del 22 maggio 2007, perché la presenza di un debito formativo è ostativa per l’ammissione agli esami di Stato.

Si ricorda, infine, che i moduli disciplinari possono interessare più discipline. Spetta in tal caso al consiglio di classe programmare gli interventi inter o pluridisciplinari.

4.§ L’argomento diviene ancora più complesso se si affronta il problema del metodo e della didattica. Complesso perché un metodo “predefinito” non esiste, ma va ricercato all’interno della stessa disciplina, nella prassi della didassi e nell’attività quotidiana, ma riflettere sul metodo è particolarmente importante per due motivi, uno di ordine formale e contrattuale, l’altro di ordine didattico in senso stretto. Il primo caso ci riporta direttamente al contratto, art. 25:

“Il profilo dei docenti è costituito da competenze disciplinari, psicopedagogiche, metodologiche didattiche, organizzativo relazionali e di ricerca, tra loro correlate ed interagenti (…) “. [14]

Lo stesso contratto prevede che il docente possieda competenze didattiche e metodologiche per potere “operare in classe e perseguire gli obiettivi di insegnamento-apprendimento”.
Il secondo motivo è strettamente operativo e psicopedagogico, perché “un buon metodo facilita l’apprendimento“. Sotto il profilo teorico nulla da ribadire, ma quando si cerca un metodo da utilizzare in classe il problema appare in tutta la sua complessità, e di solito si risolve o nel seguire “quel docente che maggiormente ha segnato l’esperienza scolastica del docente”, o nel ripetere i contenuti in una lezione frontale senza tener in debito conto le capacità cognitive degli alunni. La ricerca di un metodo è un’attività continua di riflessione teoretica, di sperimentazione pratica in classe, fino a strutturarne uno personale, efficace e funzionale alle necessità di apprendimento degli alunni.

Una breve e superficiale visita alla storia della pedagogia ci mette in luce la difficoltà di strutturare un metodo d’insegnamento. Il primo grande pedagogista che ha dedicato la propria vita al rinnovamento della didattica ed alla ricerca metodologica è G.A. Komenski, latinizzato “Comenio”. Per il Comenio la funzione fondamentale dell’istruzione è condurre l’uomo a riconoscere la propria dignità umana e a formare la propria ragione, e ciò non può essere perseguito che seguendo i principi di una didattica naturale, ovvero seguendo le tappe di sviluppo naturali del fanciullo. Nella Didactica Magna individua ben 10 punti in cui si articola la sua proposta didattica. In sintesi insiste, oltre che sul rispetto del fanciullo, sulla ciclicità, sulla gradualità, sulla continuità ed omogeneità del metodo, ed infine sulla “motivazione ad apprendere”. Questo ultimo punto necessita di una ulteriore riflessione. Motivare e incuriosire l’alunno non è semplice soprattutto quando si affrontano argomenti che richiedono una capacità di astrazione e di operatività formale, come nella matematica o nella filosofia, tuttavia l’insegnante deve poter svolgere altrettante funzioni didattiche miranti a semplificare l’apprendimento; vediamole:

– Far da guida all’allievo come modello da imitare (…);
– Far sì che l’insegnamento muova da conoscenze che riguardano l’ambiente con cui l’allievo è quotidianamente in contatto (…);
– Nel corso delle lezioni esplicative esprimersi con chiarezza (…);
– Far subito applicare quanto appreso (…);
– Nella scelta degli argomenti, optare per quelli che possono suscitare l’interesse degli alunni;
– Presentare le materie in modo attraente (…) [15].

Dobbiamo necessariamente tralasciare la riflessione sul metodo. Un suo prosieguo potrebbe presentarsi come spunto per una successiva riflessione ma ciò non è coerente con lo scopo di questa breve relazione sulla programmazione; proponiamo, invece, di seguito, una sintesi dei più importanti metodi e cinque prassi didattiche del ‘900.

Scheda n. 1: alcuni metodi

Metodi
Metodo Descrizione operativa
A spirale [16] È il metodo teorizzato dal Bruner. Secondo il Bruner è sufficiente presentare la struttura dei contenuti, e il processo di apprendimento si struttura su tre processi simultanei: acquisizione, trasformazione, valutazione.
Attivo Considera l’insegnamento un processo “formativo” più che informativo e asseconda i bisogni e le tendenze del fanciullo, lasciandolo libero di pensare, agire.
Ciclico Consiste nel trattare gli stessi argomenti nei vari gradi d’insegnamento, ma può essere proficuo anche nella lezione frontale presentando lo stesso argomento secondo livelli di profondità e di analisi diversi, partendo dal semplice al complesso.
Dei lavori di gruppo o dei gruppi di lavoro Gli alunni sono chiamati ad operare in gruppo. L’insegnante coadiuva l’attività degli alunni limitando il suo intervento. Può essere un buon metodo ma ha bisogno di una programmazione dettagliata delle fasi e deve essere ben chiaro il punto d’arrivo.
Della ricerca È quello che mira ad educare nell’alunno la capacità di giungere alla conoscenza, è il metodo che più degli altri permette di raggiungere l’obiettivo educativo dell'”imparare ad imparare”.
Dialettico È il metodo corrente della lezione frontale o della lezione-discussione, metodo accusato troppo spesso di verbalismo.
Dogmatico Si basa su contenuti aprioristici, non discutibili, fecondo in alcune discipline, deleterio se adottato come prassi consueta dall’insegnante.
Euristico Permette all’alunno di ricercare in piena autonomia. Il metodo è fecondo ma non per com’è attualmente strutturata la scuola italiana.
Metodo dell’istruzione programmata Metodo analitico che segue ed applica il principio dell’istruzione programmata. Tre sono le sue possibili esplicazioni: metodo di Skinner, metodo di Crowder, metodo Pressey.
Nozionistico Metodo tradizionale direttamente interagente con la lezione frontale, possibilmente da evitare.

Scheda n. 2: metodologie didattiche

Metodologie Didattiche
Metodologie Didattiche [17] Descrizione operativa
Didattica per concetti Matrice neo-positivista: Piaget, Vygotskij, Bruner. All’origine vi è lo strutturalismo didattico. La proposta didattica consiste nella esplicitazione dei processi di concettualizzazione. Per Piaget formare uno schema. Struttura:
1. Identificazione dell’argomento;
2. Progettare l’unità didattica;
3. Stabilire le sequenze;
4. Valutazione.
Didattica metacognitiva Matrice: A.L. Brown. La didattica meta – cognitiva consiste nel rendere cosciente l’alunno dei processi di apprendimento. La didattica meta – cognitiva appare particolarmente utile quando si privilegia l’insegnamento di un metodo di studio.
IMPARARE AD IMPARARE
Didattica dell’errore Didattica attenta alla fecondità dell’errore. Troppo spesso si stigmatizza l’errore non inserendolo dinamicamente nella attività didattica.
La matrice è H. Perkinson 1982. L’errore diventa una risorsa epistemologica.
Didattica lineare Matrice: le teorie computazionali, la logica binaria. Sorse negli anni ‘50 ed è una didattica tecnomorfa ed è legata, come si può intuire, alle premesse alla rivoluzione informatica e all’utilizzo di tecnologie informatiche. (Si inizia a parlare di programmazione).

1. CAI : Computer Assisted Instruction;
2. CBT: Computer Based Training .

Didattica speciale Didattica per i diversamente abili (OMS 1997 sostituisce la parola handicap) e si fonda sul principio che la diversità costituisca comunque una risorsa. Diverse sono le matrici e complessa è l’origine della didattica speciale che alcuni fanno risalire a J. Itard.
Didattica breve Matrice: prof. Ciampolini. Questa prassi didattica è nata negli anni ’70 per facilitare l’aggiornamento dei docenti.
Didattica dell’oscuro Matrice: J.V. Watsch. Questa particolare didattica pone in evidenza come gli insegnanti ricorrano a forme di guida indirette come le dinamiche relazionali ed affettive che coadiuvano (o ostacolano) le abilità cognitive, come il tono della voce, l’uso a scopo didattico dei gruppi spontanei, le condizioni che favoriscono la nascita della curiosità etc. Proprio perché queste sono forme di insegnamento indirette e interpersonali questa didattica è detta didattica dell’oscuro.
Didattica multimediale Matrice: anni ‘1960. accettata dai programmi Ministeriali solo nel 1997. Computer e Tv di diritto oramai sono parti integranti della didattica. Questa stessa lezione ne è un esempio. Naturalmente il dibattito è aperto se la didattica multimediale sia creativa o serva solo per rafforzare le procedure apprese. Oltre a questa oggi si parla di e-learnig (electronic learning).
Didattica del cooperative learning Matrice: J. Dewey. Questa metodologia didattica prevede di far lavorare i discenti in piccoli gruppi.
Didattica del mastery learning Apprendimento per padronanza.
Affermatosi negli anni ’70 è una delle strategie individuali di apprendimento più accreditate dal punto di vista psicologico e pedagogico.
Si mira a realizzare una situazione di APPRENDIMENTO – INSEGNAMENTO ottimale in modo tale da porre tutti gli allievi nelle condizioni di padroneggiare le conoscenze o le competenze da apprendere.
Questa procedura prevede:
1. Rispetto dei ritmi di apprendimento di ciascun allievo;
2. Le pause in itinere e l’eventuale riavvio delle procedure in caso di insuccesso;
3. I docenti devono pianificare le discipline mediante un rigoroso censimento dei contenuti essenziali.
4. La divisione dei contenuti in unità didattiche;
5. La previsione dei tempi;
6. La valutazione formativa o in itinere;
7. La predisposizione di attività di recupero;
8. La verifica finale o sommativa.

Vedere A. Visalberghi, Pedagogia e scienze dell’educazione, Ed. Mondatori, pag. 187.

Didattica orientativa Matrice: Pellerey.
Importanza del ruolo del docente.
1. Porre il soggetto in condizioni di conquistare la propria identità di fronte al contesto sociale;
2. Favorire la capacità di decidere, valutare, ponderare alternative e cambiamenti;
3. Individuare ed incoraggiare le prime manifestazioni attitudinali, scoprire le inclinazioni, destare interesse per le esperienze disciplinari.
4. In tale contesto acquista un ruolo rilevante il docente.
Mezzi didattici – LIBRO. MANUALE. (problema del libro. Tesi della morte del libro con l’e-book)
– Computer;
– Tv.

Ogni materiale può assurgere a materiale didattico in un contesto educativo. Es. carta, forbici, colla per i bambini.
Un eccesso di mezzi didattici nasconde una carenza di elaborazione didattica.
I Materiali DEVONO AGEVOLARE IL LAVORO AUTONOMO DELL’ALLIEVO, altrimenti sono inutili.

– Materiali a stampa; materiali visivi, materiali sonori, materiali informatici, materiali di manipolazione, materiali di osservazione; materiali di dimostrazioni e sperimentazione (Laboratori).

5.§ Verifica e valutazione. Se la disamina del metodo rappresenta un problema, non meno problematico è il “contenzioso” sulla valutazione, se già nel 1943 Lombardo Radice sottolineava l’illogicità di una valutazione “numerica” degli alunni, 8+7+6 +5 e 5+6+7+8 danno la stessa media, ma corrispondono a due situazioni personali, psicologiche e di apprendimento essenzialmente differenti. Quando si valuta si cade in una serie di trappole, la più comune il giudizio sull’alunno e le aspettative che finiscono per condizionare il rendimento scolastico; seconda, parametrare la valutazione di un alunno in relazione alla valutazione media della classe, nulla di più sbagliato perché ogni deliberazione valutativa è singola e personale; terzo, la media dei voti che non rispecchia affatto la condizione reale dell’alunno; quarto, la pretesa scientificità. Una prassi di verifica tanto più è organizzata in maniera pseudoscientifica, tanto più si presta alle strumentalizzazioni e tanto più livella la classe.
Personalmente ritengo necessarie le griglie valutative, ma ritengo anche che la valutazione finale debba essere oggetto di una riflessione pratica e globale sull’alunno e non sia affatto affidabile ad un mero calcolo, o ad una semplice induzione dei risultati da una serie di verifiche effettuate e valutate numericamente..
Come sicuramente si può intuire, è difficile circoscrivere il problema della verifica e della valutazione, ma è anche vero che è necessario affrontarla ed attuarla perché ogni processo organizzato e finalizzato necessita di una verifica sul raggiungimento degli obiettivi programmati. La verifica e la valutazione non hanno il solo scopo di valutare e tradurre in una quantità numerica le conoscenze dell’alunno, ma hanno anche il compito di permettere al docente di verificare l’efficacia dei metodi, dei mezzi e quindi permettere di ridefinire le strategie operative e didattiche; di permettere alla scuola di valutare e verificare il proprio dinamismo e la propria capacità di rispondere alle esigenze del territorio e dell’utenza, ed infine, mettere l’allievo in condizioni di autovalutarsi. Dati questi presupposti la verifica dovrebbe essere:

1.1 Globale, nel senso che va riferita non solo alla didattica ma anche ai complessi aspetti psicologici, personali, ambientali;
1.2 Continua e permanente;
1.3 Pedagogicamente motivata e non usata come mezzo di oppressione, e deve essere connessa all’impegno verso determinati fini;
1.4 Promozionale, deve cioè promuovere l’autonomia e la capacità di autovalutazione dell’alunno;
1.5 Se non oggettiva almeno attendibile riducendo il coinvolgimento personale del docente;
1.6 Interpersonale, cioè “frutto dei costanti rapporti interpersonali con il docente ed il gruppo” [18].

Le verifiche, a mio avviso, per essere attendibili, dal momento che abbiamo assistito al tramonto dell’oggettività già da tempo, debbono essere diversificate secondo diverse metodologie. Indichiamone alcune:

2. 1. L’interrogazione orale;
2. 2. L’interrogazione scritta informale;
2. 3. I saggi e le interrogazioni scritte;
2. 4. I questionari a domanda aperta, o chiusa;
2. 5. Test di completamento o attraverso l’ausilio di strumenti informatici;
2. 6. Verifica del lavoro di gruppo.

Prima di chiudere questa ultima sezione sulla programmazione, con l’intento di suggerire un’ulteriore modalità di elaborazione delle verifiche e delle valutazioni, mi sembra utile richiamare quanto una collega scrisse alcuni anni fa sulla verifica e sulla valutazione nel verbale di dipartimento di filosofia, storia e scienze dell’educazione:

Con la verifica si intende valutare quantitativamente il percorso di apprendimento di ciascun alunno in base ai seguenti descrittori:
conoscenza: descrive il semplice possesso di informazioni; si esprime nella ripetizione da parte dell’alunno di nozioni anche ampie ma rigidamente ordinate e organizzate;
competenza: postula la comprensione dell’informazione, ne consente la modificazione e integrazione con altre conoscenze: l’alunna sa stabilire relazioni, sa spiegare le proprie affermazioni, sa cogliere la coerenza tra informazioni, sa dar conto della terminologia propria dei vari linguaggi specifici;
capacità: descrive il momento di maggior qualità del percorso di apprendimento e consiste nell’utilizzare le conoscenze per attribuire valori, decidere, giudicare; si ritiene acquisita quando l’alunno sa stabilire collegamenti e confronti, sa eseguire astrazioni.
Le prove di verifica assumeranno, pertanto, una duplice tipologia:
– di profitto, finalizzate a dimostrare la presenza – assenza delle informazioni;
– di procedura, atte ad evidenziare capacità più complesse quali l’analizzare, il sintetizzare, il fare inferenze, il valutare.
Le verifiche, sia di profitto che di procedura, potranno assumere la forma dell’interrogazione orale o scritta, e saranno quanto più possibile frequenti per poter attivare tempestivamente i necessari momenti di recupero e per adeguare ritmi e scansione degli argomenti previsti dalla programmazione ai tempi di apprendimento degli alunni.

Valutazione
Poiché per alcuni docenti il voto deve costituire un dato puramente quantitativo, basato sugli esiti delle verifiche, mentre per altri esso deve assumere anche una funzione qualitativa rispetto al complessivo processo formativo, si concorda una griglia in cui compaiono entrambi i dati valutativi distinti in base al carattere grafico: sarà il singolo docente, nell’ambito del Consiglio di classe, a decidere se all’interno il quantitativo numerico debba esprimere anche il dato qualitativo.

Certamente non è possibile esaurire il “contenzioso” della verifica e della valutazione ma per chi intendesse approfondire allegheremo alla fine alcuni suggerimenti bibliografici.

Recupero. Con la nuova normativa in materia il collegio docenti dovrà adottare nuove strategie e modalità alle quali il docente dovrà conformare la propria programmazione.

Relazione finale. La relazione finale dovrebbe essere un lavoro di sintesi dal punto di partenza al punto di arrivo, cioè dalla situazione iniziale alla situazione conclusiva, sia sui contenuti, sui metodi, sulle verifiche effettuate, sulle possibile integrazioni o sulle possibili parti del programma non sviluppate, alle verifiche effettuate.

Nel concludere, vorrei fare alcune considerazioni personali con la speranza che possano essere spunti di riflessione e di discussione con i colleghi. La prima consiste nella consapevolezza degli obiettivi comuni, perché senza la consapevolezza degli obiettivi non è possibile stendere una programmazione credibile; la seconda insiste sulla programmazione educativa collegiale condivisa, in grado di trasformare i progetti dell’Istituto nel “progetto educativo dell’istituto“; la terza sulla difficoltà di individuare i saperi essenziali, sui quali persino il Governo brancola nel buio più assoluto, per cui il riferimento va sempre ai programmi tradizionali, non tenendo in debita considerazione le abilità e le capacità cognitive degli alunni che, forse, richiederebbero anche nuovi contenuti; l’ultima considerazione verte sulla finalità della scuola, ben poco chiara, se non nella speciosità barocca dei POF, e sull’efficacia educativa della stessa: non sarà il caso di iniziare a parlare, tra le finalità educativa, di “rieducazione“? Non è forse vero che l’alunno raggiunge la scuola superiore con dei saperi già consolidati, più o meno ben strutturati? Non è forse vero che l’alunno raggiunge la scuola superiore “educato“, dall’ambiente di provenienza, da quella cattiva maestra che è la televisione, analogica o digitale, e con comportamenti costruiti sulla frequentazione assidua del mondo informatico e virtuale? E allora? Quali soluzioni? Quali obiettivi formativi per educare le persone alla libertà, all’autonomia di giudizio, al lavoro, alla complessità della società contemporanea ed alla sue sfide?

Bibliografia

Bibliografia
Autori Titoli Casa Editrice
AA.VV Dispense su Programma, programmi e programmazione 1991
AA.VV. La progettazione formativa nella scuola La tecnica della scuola
B. Vertecchi Introduzione alla ricerca didattica La Nuova Italia
B. Vertecchi La didattica tra certezza e probabilità La Nuova Italia
C. Laneva Elementi di didattica generale Editrice La scuola
Calonghi Luigi Valutazione Editrice la Scuola
Duane P. Scultz Storia della psicologia moderna Giunti Barbèra
F. Frabboni Il Libro di pedagogia e Didattica, Vol 3 Laterza
F. Pressutti Psicologia dell’educazione e metodi di ricerca ATLAS
G. De Vecchi Aiutare ad apprendere La Nuova Italia
G. Giugni Introduzione allo studio delle scienze pedagogiche SEI
G. Petracchi Apprendimento scolastico e insegnamento Editrice La scuola
G. Petter Dall’infanzia all’adolescenza Giunti
Guy R.Lefrançois Psicologia per insegnare Armando
J. Bruner Il processo educativo dopo Dewey ed. Armando
J. Bruner La cultura dell’educazione Feltrinelli
J. Bruner Verso una teoria dell’istruzione Armando
J. Dewey Scuola e società La Nuova Italia
K. Richardoson Che cos’è l’intelligenza Tascabili Einaudi
L. Trisciuzzi Manuale di pedagogia sperimentale Edizione ETS
L. Trisciuzzi Manuale di didattica in classe Edizioni ETS
L.Tomassucci Fontana Corso di perfezionamento in didattica generale e sperimentale La Nuova Italia
P.Bertolini Dizionario di Pedagogia e scienze dell’educazione Zanichelli
R. Tassi, Itinerari pedagogici della programmazione didattica Zanichelli,
R.M. Gagné Le condizioni dell’apprendimento Armando
S. Bloom Tassonomia degli obiettivi educativi Giunti & Lisciani
U. Galimberti Dizionario di psicologia vol. 3 UTET
V. Telmon La filosofia nei licei italiani CLUEB

Note

1. Art. 24 Contratto.
2. Vedi Guide operative della scuola, Il sole 24 ORE.
3. Per avere un quadro più dettagliato del significato della parole consultare: P.Bertolini, Dizionario di Pedagogia e scienze dell’educazione, Bo, 1996, ed. Zanichelli; U. Galimberti, Dizionario di psicologia, vol. 3, To, 1994, ed. UTET.
4. AA.VV. dispense su Programma, programmi e programmazione 1991, pag. 5.
5. Dispensa, op.cit., pag. 5.
6. R. Tassi, Itinerari pedagogici della programmazione didattica, Bo, 1991, Ed. Zanichelli, pag. 71.
7. R. Tassi, op. cit., pag. 73.
8. Per gli approfondimenti consultare il testo del Tassi già citato.
9. Quanto sia importante la prima impressione lo dimostrano gli studi psicologici sull’ “effetto alone”, che consiste nel lasciarsi guidare, nel giudicare una persona, un alunno da un’impressione generale.
10. Dispensa cit. pag. 12.
11. Per una maggiore informazione sugli obiettivi si consulti il testo da cui sono stati tratti, G. De Vecchi, Aiutare ad apprendere, Fi, 1998, ed. La Nuova Italia, pag. 78.
12. F. Frabboni, Il Libro di pedagogia e Didattica, vol 3, Bari, 1998, ed. Laterza, pag. 165.
13. F. Frabboni, op. cit. pag. 166.
14. Art. 25, ex art. 23 CCNL scuola del 1999.
15. Per approfondire si veda Lucia Tomassucci Fontana, Corso di perfezionamento in didattica generale e sperimentale, ed. La Nuova Italia, pag. 108.
16. Per un approfondimento vedere J. Bruner, Il processo educativo dopo Dewey, Roma, 1977, ed. Armando
17. Per approfondimenti vedi C. Laneva, Elementi di didattica generale, Brescia, 1998, Editrice La scuola.
18. Gli aspetti riportati sono indicativi e ripresi da G. Giugni; chi vuole approfondire veda G. Giugni, Introduzione allo studio delle scienze pedagogiche, To, 1998, ed. SEI, pag. 218.

Prof. Serse Camedda

Sylvia Plath

Sylvia Plath was an instinctive poet with great intelligence and strong pessimism.
Her life was crowded with events and experiences but above all with suffer that made her a symbol of Feminism.
It also appears in poems, diary and in the only one novel she wrote, “The Bell Jar”.
Sylvia was born on October 27, 1932 in Boston. Her parents were both university lecturers from whom she probably learnt the interest in writing.
Her father died in 1940, when Sylvia was only 8 years old.
She was still confused and angry about her father’s death, she sometimes felt that, in a way, he had committed suicide because he could have prevented it. Her strong and conflicting emotions of love, hate, anger and grief at the loss of her father were to affect Sylvia for the rest of her life. In that moment she proclaimed: “I’ll never speak to God again“.

On the 12th October 1962, the year before she committed suicide and during the breakup of her marriage, she wrote “Daddy”, a poem which became a cult text for the American feminists.
It’s a terrible poem, full of blackness and one of the most nakedly confessional poems ever written.
She describes her true feelings about her deceased father.
Throughout the poem, many instances illustrate a great feeling of hatred toward Plath’s father. At the beginning, she expresses her fears of her father and how he treated her.
These feelings are clear for example in “I never could talk to you“, “The tongue stuck in my jaw“, but the sense of the childhood terror melds into a suggestion of the Jewish persecution and terror with the next line: “It stuck in a barb wire snare“. She admits that she was afraid of him.
The historical references to wars being fought in Germany allow her to dramatize her rebellion against the oppressive father. In the first stanza she compares him to a “black shoe in which she has lived like a foot” and it is certainly a stifling image but not yet a clear reference to the father’s evil nature. Next he is “Marble heavy, a bag full of God” and a “Ghastly statue“, images which reveal the daughter’s struggle to cope with his death.
The turning point in the poem is “But they pulled me out of the sack and they stuck me together with glue, And then I knew what to do. I made a model of you“.
This last statement could mean she made of her father a prototype of all men.
Her image of the “man in black with a Meinkampf look” is superimposed to destroy, she has two, the prototypic father and the husband who is fashioned in his likeness.

The poem “Stings” establishes a similar relationship between the dead imaginary father and the living but spectral husband: “A third person is watching. He has nothing to do with the bee-seller on me. Now he is gone. In eight great bounds, a great scapegoat“.
By killing her father’s memory maybe Sylvia could find relief, becoming an independent self, so we could say that “Daddy” is a metaphorical murder but she exorcizes her father’s memory by rejecting the husband, symbolically killing not one man, but two.
In fact she says “If I’ve killed one man, I’ve killed two the vampire who said he was you and drank my blood for a year, /Seven years if you want to know“. She separates the figures of father and husband and the period of seven years corresponds exactly to the duration of the poet’s marriage, thus identifying the vampire with the husband.
Since the original violence was described in language that implicated the husband, it’s clear the revenge is committed against him.
She confesses her feelings about men and death and how they are related and she is influenced by the divorce from her husband.
Sylvia wrote this poem about the many struggles in her life, that she felt were caused by either her father or her husband. All of these struggles left her a feeling of insignificance toward men, primarily her father.
By writing this poem, she is releasing her inner hostility as a means of closure for the treatment she has received.
This poem ends with a sort of “goodbye” to her father with the use of a violent language: “Daddy, daddy, you bastard, I’m through“.
But Sylvia accused her mother of the loss of her father. She has killed the first man of Sylvia’s world and so she has complicated the relationship with the other men for the rest of her life.
Plath’s life was characterised by turbulent relationship with the other sex, first of all with the authoritarian figure of the father who symbolizes the patriarchal society.
Her life changed in 1956, when she met the English poet Ted Hughes, “a big, dark hunky boy, the only one…huge enough for me“, as Sylvia said.
A male friend warned her that Ted was “the biggest seducer in Cambridge“, but the attraction between Ted and Sylvia was even greater at this meeting, she found Hughes’s power and strength irresistible.
She was very much in love with him, he was the perfect man, the saver and the “colossus” of her fantasies.
In one of her poem named “Pursuit” she said: “There’s a panther stalks me down. One day I’ll have my death of him“.
She quickly started writing poems to him and they got married.
I feel miraculously, I have the impossible, the wonderful” she wrote in her journals about her husband, “I am perfectly at one with Ted, body & soul, as the ridiculous song says – our vocation is writing, our love is each other – and the world is ours to explore“.
It was difficult for her accepting her female identity, she felt envy for men and at the same time she wished a life which was not controlled by the husband, she needed the ideal marriage, the ideal love that had to join together in a “literary marriage”.
She wanted a man who loved her because she was special, but she didn’t want to rule her future husband and at the same time she didn’t want to be ruled.
So she made the image of an ideal man, the only one who, maybe, she could accept. He was a strong man, good looking, a sort of god with whom she could create a relationship which unites creative energies.

This is why on 21st April 1956 she wrote “Ode for Ted“, a poem where she compares her husband to a superior force, showing him as a sort of god who can produce nature.
She gives him a lot of definitions, at the beginning Ted is a “shrewd stoat” that frightens rabbits (symbol of cowardice) and makes them run away, but he can even stalk red fox which is famous as a cunning animal.
But he’s also a mole with the “blue fur” that “shunt up from delved worm haunt“.
He’s strong enough to smash a quartz and he has the power to turn “flayed colors” into “ripen rich, brown” colours under the sun-light.
Ted’s look makes the soil rich and if he just touches the ground, this gives fruits and leaves, he makes the corn sprout just because he wants it!
If he moves his hand the “birds build“. He’s a sort of “king”, woods are Ted’s kingdom, a place where “Ring doves roost shirr songs to suit which mood he saunter in“.
Ted is compared to the sun and she names him “Adamo” and no woman can resist him…
She was sure that it wasn’t enough being a woman and she thought that it was a conviction she hadn’t man’s opportunities.
She wrote: “If I were a man, about this I could write a novel. But why, being a woman, have I only to cry and freeze, to cry and freeze“?

Sylvia Plath was an excellent writer, she had beauty and wit but it wasn’t enough for her, she was unhappy.
She looked for greatness but she tried to become who her mother wanted she became.
Her mother was proud of her and she projected her wishes to her daughter, those ambitions that she couldn’t cultivate because of her husband and his death.
Sylvia loved her mother’s Sylvia, she felt her as a part of her but she came to hate her and she wanted to punish her because she imposed her a hard challenge that never lets up. So she didn’t manage to be spontaneous.
She said: “My life is a discipline, a prison“, she wrote in March ‘58, “I live for my own work, without which I am nothing“.
Sylvia wanted to become a perfect personality who wasn’t afraid of her ambition and of her literary success. She said: “I think that I want to be omniscient” and she defined herself “the girl who wanted to be God“.

In “Soliloquy of the solipsist” she shows a typical feature of her personality that the same author seemed to know.
In this poem she puts right in the centre of the reader’s attention subjectivity and her ” I “, which is set on the top of every stanza.
At the beginning ” I ” could be a way to catch her personality attention…Sylvia looks after and calls for it…but she hasn’t any answer now…
After that ” I ” becomes something which explains who Sylvia is, what she usually does or how she gets in touch with the other people.
It seems as she wants to show her superiority towards anything else…towards anything natural as the moon, the trees , the grass, the sky, the sun and the flowers, or artificial as the street and the houses.
She uses her power against people, for example in sentence “dangles the puppet people” who don’t know that if “I choose to blink, they die“.
The most particular thing is that in the third stanza there’s a sort of contrast between “I-life” that “grass its green” and “blazon sky blue and endow the sun with gold” and “I-death” that makes the opposite effect on nature “to boycott color and forbid any flower to be“.
But on the last stanza Sylvia’s ” I ” comes declaring her power and her force denying that it sprang out of her head.
Anyway Sylvia tells the reader that her beauty and all her wit is nothing else that a gift from her.
The title “Soliloquy of the solipsist” has a meaning: Sylvia is an egocentric person, and her ” I ” is something really important for her because it helps her into knowing and finding herself.

Sylvia Plath couldn’t be defined a mad person, she was weak and fragile and above all too much unhappy.
Anyway she could be considered unstable because she suffered depression and she attempted suicide: the first time on August 24, 1953 and the second (the last) on February 11, 1963.
In her poems she deals with themes of death, suicide, depression: an example is “Lady Lazarus“, written in 1961, when she fuses the worlds of personal pain and corporate suffering. As in “Daddy” Sylvia Plath has used a limited amount of autobiographical details and the references to suicide reflect her own experience.
The first stanza introduces the subject: she attempted suicide and cheats death every 10 years. She says: “I have done it again / One year in every ten / I manage it“.
She equates her suffering with the experiences of the tortured Jews and she makes some Nazi references when she says: “A sort of walking miracle, my skin/Bright as a Nazi lampshade/My right feet/A paperweight/My face a featureless, fine/Jew linen“.
Her face is featureless, just like the face of one who has been burned and because burn victims are wrapped in napkins, the command to “Peel off the napkin” means the poet was a burn victim.
Later, she describes some of the only recognizable features of one who has had their face badly burned, including nose and eye pits, teeth, and the sour breath.
So she reveals that is her third suicide attempt: “And I a smiling woman/I am only thirty/And like the cat I have nine times to die/This is Number Three“. And this implies that she will continue to attempt suicide every ten years.
In the ninth stanza she addresses an audience as “Gentlemen, Ladies”, a phrase used at the circus.
Her suicide attempts become the source of the other’s amazement and entertainment: society is fascinated with death.
Many connections can be drawn between this poem and Sylvia Plath’s life.
Referring to suicide attempts, the poet says: “The first time it happened I was ten/It was an accident“.
When she was ten, her father died, a life-changing event. She may think of this as a death of the part of her.
Next, she says “The second time I meant/To last it out and not come back at all./I rocked shut/As a sea shell/ They had to call/ And pick the worms off me like sticky pearls“.
She refers when she tried to commit suicide when she was twenty.
She overdosed on sleeping pills, and it took multiple days for others to find her. This poem could be read as a prophecy, the third suicide attempt discussed being one Plath herself would undertake. After this poem was written, Plath successfully committed suicide by sticking her head in oven on February 11, 1963, at the age of thirty.

The Bell Jar” is the only one Plath’s autobiographical novel based on her experiences.
It speaks about early 1950’s society and the doubts of a girl, Esther Greenwood, an excellent student with great potentials, especially in writing.
The uncertainty about her future, after the university and the big discomfort toward a society steeped in conformity, brings her to a strong identity crisis, to attempt suicide and to a subsequent, slow and doubtful “return to life”.
By thinking about herself, she shows us the opportunities that often a brilliant twenty year old woman as her had in America.
Marriage is the target of a critic which wants to underline how it’s often like a cage for the freedom of a woman, like a negation of an independence that, it Esther’s case, made itself the education.
With the female characters of the novel, Sylvia deals with the social question about Feminism.
The need of independence clashes with different male characters who reflect a traditional mentality and substantially a chauvinist male.
Their difficulties emerge above all when she faces the choice about what job she has to do.
A great deal of the novel concerns the expectations that others have for Esther with regards to behaviour and her future, as well as the expectations that Esther has for others.
Esther feels that she is pressured to succeed in whatever career she chooses and she also feels pressured concerning proper codes of behaviour, particularly with regard to sexuality.
She worries most that she cannot cook nor take short hand, and ironically she worries about not being able to fulfil mundane duties rather than worrying about larger questions of what she does as a successful career woman. Her problem is that she has too many options, but no satisfying option that can conform to what is traditionally expected of her.
She cannot reconcile a successful career that she may choose with the traditional roles of her society.
She is constantly monitored by others and one of the most significant causes of her depression is the high-pressure environment where Esther lives, so the madness is a desperate reaction to what the world can give her.
The theme of societal pressure even continues into mental hospital where the greatest concern of Esther’s mother and even some of the patients is that they will not be accepted in their particular social circles because of their mental illness. Esther’s decision to abandon her long time devotion to chastity could represent an assertion of her independence in the face of the societal repression around her.
Sylvia lends credence to the idea that is repression that drives Esther Greenwood to despair and depression.
Buddy Willard comes to symbolize the broader forces of society that repress Esther: he literally calls her “crazy” for never wanting to get married, thus assuming that the only same choice for a woman is to become a wife.
A sense of confinement permeates Plath’s novel, even represented by the bell jar that forms the title of the book. The sense that she is trapped is the most obvious manifestation of her mental illness. She feels as under a bell jar, protected and far from what happens around her, for example she stays in a hotel only for women and probably this means an attempt to keep away women from men.
The bell jar symbolizes Esther’s suffocation, for the jar intends to preserve its ornamental contents but instead traps them in stale air.
Plath includes several instances in which Esther imagines herself as confined.
She says: “It’s quite amazing how I’ve gone around for most of my life as in the rarefied atmosphere under a bell jar“.

Plath’s poems belong to the so called “confessional poetry”, since they reveal the most subjective feelings, the deepest emotions and torments as if in a confession.
They are usually written in free verse as fragments of consciousness by a masterful use of sound effects and rhythm.
So her poetry couldn’t be defined only a feminist or female poetry, it’s the proof of her suffer and the description of her personality: she was egocentric, sad and pessimist, so she needed to burn again with poetry and with death’s thought.
She manipulated words in a magic way, looking for a careful and original use of words.
She used repeated sounds, melodies, refrain and nursery rhyme, looking for musicality of words, and at the same time she seemed angry showing it with a violent and deep language.
Anyway Plath’s poetry is above all pure emotion, something spontaneous which frightens her.
Poetry is self-analysis, the search for her identity, the only way she could put order to her life.
Sylvia said : “Poets that I love are possessed by their lines as the rhythm of their breath. I think that my poems arise immediately by my sensuous and emotive experiences, but I’ve to say I don’t like heart’s shouts… I think that the experiences, even the most terrifying, even madness and torture have to be manipulated“.
Poetry and breath are the same thing and Sylvia said : “I would die if I didn’t manage to write about nobody else who is not me“.

Manuela Scano

Handicap. Pensieri sparsi

Come riportato nel “Grand dictionnaire universel du XIX siècle”, 1873, di Pierre Larousse, la parola “handicap” è di origine irlandese: per i mercanti di cavalli, mettere la mano nel berretto (“hand in cap”), dove era consuetudine riporre il denaro, significava “mercato concluso”. Il vocabolo fu poi utilizzato (“Dictionnaire de la langue française”, 1877, di Emile Littré) per indicare un gioco d’azzardo: durante i momenti di attesa, tra una gara di cavalli e l’altra, i giocatori (tre) mettevano ciascuno in un berretto un’uguale quota di denaro; si tirava poi a sorte e chi vinceva si prendeva tutto. Il terzo significato [1] va sempre riferito alle corse dei cavalli: per far sì che il cavallo peggiore avesse le stesse probabilità di vincere la corsa quante il migliore, si attribuivano degli handicap, cioè degli svantaggi, consistenti in pesi, ai cavalli più veloci; il concorrente più handicappato risultava quindi essere quello più appesantito. Una regola simile obbligava il fantino più veloce a tenere, durante la corsa, una mano sulla testa, sul/nel berretto (“hand in cap”, appunto). E’ con quest’ultimo significato che bisogna considerare il termine in questione: l’handicap è infatti una condizione di svantaggio sociale, di emarginazione, determinata da una minorazione (stabilizzata o progressiva, singola o plurima che sia) fisica, psichica o sensoriale. L’handicap, quindi, è identificabile con le difficoltà di apprendimento, di relazione, di integrazione lavorativa, con le quali la persona si ritrova quotidianamente a fare i conti in conseguenza della propria minorazione. Esso è di natura variabile: dipende da come il soggetto vive le suddette difficoltà e ciò, tuttavia, a sua volta dipende da come la famiglia, la scuola, la società nel suo insieme intervengono sulle stesse. Mentre la minorazione è spesso difficilmente modificabile, l’handicap può invece essere ridotto, aumentato, a volte annullato, semplicemente a seconda che si neghino, facilitino o assicurino alle persone disabili (o, come preferisce l’O.M.S., diversamente abili) i vari tipi di diritti umani [2]: civili, etico–sociali, economici e politici, riconosciuti, molto più a livello formale che sostanziale, dalle varie Convenzioni internazionali, dal Trattato dell’Unione Europea e dalle Costituzioni nazionali [3]. Utopia ugualitaria?

Molti anni fa, l’Associazione Bambini Down portò avanti una campagna di sensibilizzazione tendente a scardinare stereotipi e pregiudizi radicati nella nostra società veicolando un messaggio che, grosso modo, era così strutturato: “Per la gente è un mongoloide, per i conoscenti è un Down, per gli amici è Jacopo”. Il messaggio era ed è chiaro: una cosa è entrare in relazione con un Down che incidentalmente si chiama Jacopo, un’altra entrare in relazione con Jacopo che, incidentalmente, è anche un Down. Nel primo caso si tende a far risaltare la parola Down (o mongoloide), con tutto il suo implicito giudizio di valore negativo sulla diversità del soggetto; nel secondo si tende a confinare la patologia sullo sfondo, facendo emergere il valore della persona in sé. Il messaggio è dunque un invito ad abbattere quelle barriere culturali che portano alla discriminazione, alla compassione, all’esclusione, è un auspicio per una società integrante nei confronti di tutti, per una società che riconosca il valore–persona di ognuno e l’unita dignità umana che merita e richiede rispetto, indipendentemente dalla/e patologia/e che l‘individuo presenta, dalle condizioni in cui si svolge la sua vita, dalle capacità che può esprimere: “La discriminazione in base all’efficienza non è meno deprecabile di quella compiuta in base alla razza o al sesso o alla religione” [4].
Pure la scuola, anche attingendo ai principi di Maritain [5] ha fatto proprio questo “nuovo umanesimo” e lo ha sancito esplicitamente attraverso la legge–quadro 104/92. La scuola può fare molto per promuovere atteggiamenti e comportamenti di accettazione, comprensione e rispetto nei confronti degli alunni in situazione di handicap; non bisogna tuttavia dimenticare che l’integrazione scolastica ha come fine il “trarre fuori” le potenzialità nell’apprendimento, nella comunicazione, nella socializzazione, ecc. che ognuno ha in sé, possibilmente affinché possa esprimere autonomamente giudizi e scelte, liberamente decidere del proprio presente e del proprio futuro di cittadino.
Ciascuno di noi ha il compito di educare, tenendo presente che i risultati non sono sempre garantiti. Personalmente ritengo che i processi di apprendimento delle diverse materie, come sosteneva Vygotskij [6], siano tutti collegati con lo sviluppo del sistema nervoso centrale. Il processo di apprendimento può generare un’ “area di sviluppo potenziale”, far nascere, stimolare, attivare un gruppo di processi interni di sviluppo (e questa attivazione non potrebbe avere luogo senza l’apprendimento), portare allo sviluppo mentale, ad un mutamento delle caratteristiche psico–intellettive del soggetto, anche in situazione di handicap. In effetti, mentre in passato le conoscenze sul funzionamento cerebrale non fornivano molte indicazioni utili per il lavoro educativo e didattico, le ricerche dell’ultimo decennio hanno dimostrato che il nostro cervello, per dirla con C. Blakemore, “è un organo altamente plastico” [7], ha la capacità di essere modificabile, flessibile, per cui alcune aree sono in grado di subentrare, rimediare funzionalmente, supplire alle eventuali menomazioni di altre aree [8] dovute a traumi da parto, incidenti stradali, ictus, sindromi specifiche; l’apoptosi provocata da una lesione cerebrale può spingere i vicini neuroni non lesionati a produrre nuovi prolungamenti nervosi che, piano piano, possono sostituire quelli andati perduti, ricreando nell’area interessata l’attività sinaptica. Il cervello, con le sue decine di miliardi di neuroni in grado di generare un indicibile numero di connessioni di reti o gruppi neuronali, semplicemente si adatta alla situazione; la “riorganizzazione funzionale” cerebrale non può che essere agevolata dagli stimoli ricevuti dall’esterno, dal processo educativo e didattico.
Naturalmente, il cervello è tanto più “modificabile”, quanto più si è giovani, poiché si hanno molti più neuroni (più potenzialità neurologiche) nel bambino che nel cervello di un adulto.
La predisposizione di eventuali interventi di recupero dovrebbe quindi essere precoce per offrire maggiori possibilità di crescita, sviluppo, “normalità”, ma il processo riparativo, seppure in forma attenuata, è possibile anche nell’età adulta. Ecco perchè bisognerebbe orientare il nostro intervento educativo/didattico avendo sempre fiducia, “cercando di capire colui che ci sta di fronte e ci chiede aiuto” [9], credendo nelle potenzialità della persona, compresa quella in situazione di handicap, anche se a prima vista ci appare senza prospettive di crescita: batti e ribatti, prova e riprova, eliminando poco per volta la “ruggine cerebrale”, “oliando i circuiti”, a volte (non sempre e comunque) si riescono a liberare, a “trarre fuori” , ad “attuare” capacità nascoste ritenute in un primo momento impensabili. Per ottenere ciò è necessario che l’alunno sia costantemente sollecitato all’attività, che siano stimolate anche le funzioni mentali superiori, le sue potenzialità intellettive. Probabilmente, come sostengono G. Doman, H. Gardner, K. Popper, J. Eccles, è proprio la funzione che crea la struttura [10]. Il cervello dovrebbe perciò essere continuamente stimolato a compiere dei progressi, perché esso cresce, si sviluppa con l’uso e con l’attività, permane in una condizione stazionaria o regredisce con l’inattività e l’inerzia.

Al fine di avere un’evoluzione positiva del processo integrativo scolastico degli alunni in situazione di handicap bisognerebbe attivare la risorsa alunni (amicizia, studio cooperativo, tutoring incrementano il benessere personale e l’autostima, nonché la motivazione allo studio e l’apprendimento), la risorsa famiglia (la cui partecipazione all’elaborazione e allo sviluppo del percorso di crescita del proprio figlio rimane preziosa [11]), la risorsa comunità locale (Assistenti sociali, amministratori, ecc., per le problematiche, scolastiche e non, di loro pertinenza) e volontariato (per compiti, tempo libero, ecc.), la risorsa A.S.L. (nell’ambito dell’Atto di indirizzo di cui al D.P.R. del 24.02.1994 e dei conseguenti Accordi di programma). L’integrazione scolastica dovrebbe andare di pari passo con l’integrazione familiare, sociale e, in seguito, lavorativa [12] e ciò potrà conseguirsi solo attraverso una sinergia di interventi, una “rete di sostegni” [13]; sempre più, insomma, si va nella direzione del cosiddetto “Progetto di vita”, che comporta il prendere in considerazione anche la vita extrascolastica dell’alunno–persona, anzi, di più, comporta il pensare già al loro futuro, anche a ciò che molte preoccupate famiglie che accolgono al loro interno persone adulte con grave disabilità indicano semplicemente come “dopo di noi”. Si vedano in proposito le positive esperienze che si stanno portando avanti in alcune piccole comunità nelle quali tutti, operatori per primi, sono umilmente disposti “a far fatica e talvolta a sacrificarsi per perseguire la finalità del bene comune, di tutti e di ciascuno” [14]. Ci si intende riferire non a “para–ospedali permanenti di marca sanitaristica, emblema del neo–assistenzialismo, con cure e tecniche, ma senz’anima, senza condivisione e comunione” [15], ma a luoghi in cui acquistano valore l’accoglienza, l’accettazione, l’amicizia, la cooperazione, il mutuo aiuto, il “vivere per servire”, direbbe Mariani [16]. Anche a scuola l’accettazione e la comprensione sono fondamentali. L’accettazione “è come un terreno fertile che permette a un debole seme di svilupparsi nel fiore che è contenuto in esso” [17]. Senza di esse, per quante risorse si riesca ad attivare, si resta fermi al punto di partenza. “Amare per educare”. direbbe Petracchi [18].

Note:

1. Ma ne esiste anche un quarto, qui non riportato, riguardante il mondo del golf.

2. Norberto Bobbio distingueva tra diritti sociali, che richiedono un intervento diretto dello Stato e diritti di libertà, per il cui esercizio riteneva necessario il riconoscimento dei primi.

3. Artt. 13-54 per quanto riguarda la nostra.

4. Giovanni Paolo II , Messaggio inviato ai partecipanti al Simposio internazionale su “Dignità e diritti della persona con handicap mentale”, svoltosi a Città del Vaticano nel gennaio 2004.

5. Vedi “L’Umanesimo integrale” e “L’educazione al bivio”.

6. Vedi, per esempio, L. S. Vygotskij, Lo sviluppo psichico del bambino, Ed. Riuniti, Roma, 1973

7. Vedi la Relazione tenuta al Congresso internazionale su “The Human Brain – modelling e remodelling”, svoltosi pochi mesi fa (ottobre 2004) a Roma presso l’Accademia Nazionale dei Lincei.

8. Vedi K. S. Lasley, Meccanismi del cervello e intelligenza, Angeli, Milano, 1979 e I. H. Robertson, Il cervello plastico, Rizzoli, Milano, 1999.

9. L. d’Alonzo, Pedagogia speciale, La Scuola, Brescia, 2003.

10. H. Gardner, Formae mentis, Feltrinelli, Milano, 1987; G. Doman, Che cosa fare per il vostro bambino cerebroleso, Armando, Roma, 1983; K. Popper – J. Eccles, L’Io e il suo cervello, Armando, Roma, 1981.

11. Marisa Pavone, il compianto Mario Tortello e Riziero Zucchi elaborarono, a suo tempo, il concetto di “Pedagogia dei genitori”; con tale titolo, si è svolto nel dicembre 2003 a Torino un Convegno transnazionale finanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del programma Socrates/Grundtvig 2.

12. Soprattutto qui in Sardegna si dovrebbero rendere più “sostanziali” e meno “formali” i contenuti di cui alla L. 196/97, alla L. 68/99, al D.P.C.M. del 13.01.2000.

13. Vedi Stainback W. – Stainback S., La gestione avanzata dell’integrazione scolastica, Erickson, Trento, 1993.

14. V. Mariani, Pedagogia della vita comunitaria, AVE, Roma, 2001.

15. V. Mariani, La programmazione e il progetto operativo nelle realtà per disabili mentali adulti, Del Cerro, Tirrenia (Pi), 1999. Vedi anche A. Valentini, Oltre l’assistenzialismo e l’irrecuperabilità. Le dimensioni pedagogica e comunitaria, in AA.VV, Handicap. Servizi.Qualità della vita, Gruppo solidarietà, Castelplanio (An), 2001.

16. V. Mariani, Pedagogia del servire, CdG, Pavia, 2002.

17. Th. Gordon, Insegnanti efficaci, Giunti Lisciani, Teramo, 1991.

18. G. Petracchi, Affettività e scuola, Editrice La Scuola, Brescia, 1993.

Mario Luigi Loi