Ricordi del passato

Era il temporale più violento a cui avesse mai assistito, la pioggia urtava contro le finestre, i tuoni risuonavano in tutta la casa come urla e una bambina stava rannicchiata sotto le coperte, i riccioli sbucavano fuori dal lenzuolo e gli occhi erano serrati per la paura; non vedeva l’ora che quel trambusto cessasse.
Passò qualche ora prima che riuscisse ad addormentarsi, i suoi pensieri galleggiavano in uno spazio interminabile, riusciva a scorgere i visi dei suoi genitori che la rassicuravano per il suo primo giorno di scuola:
“Piccola mia, vedrai che andrà tutto bene, non hai nulla di che preoccuparti” le diceva la madre mentre le dava un buffetto sulla guancia; lei girò il capo verso il papà che rimase burbero e impassibile a guardarla, ma giurò di aver visto un sorriso tenero sotto ai grandi baffi.
Con innocenza gli tirò la manica della camicia per farlo inchinare verso di lei e gli diede un bacio sulla guancia, lui le sussurrò “giudizio, mi raccomando” e senza dire altro tornò alla macchina.
I suoi pensieri tornarono ad un’altra scena, i genitori stavano litigando il giorno di natale e lei era seduta in un angolo della stanza, piangendo.
Ma ecco un altro flash-back, lei e la sua migliore amica sdraiate sul tappeto guardavano il fumo dell’incenso acceso dileguarsi nell’aria, che prendeva forme diverse, cantavano e scherzavano…
Ora si trovava in classe, i compagni l’additavano e la professoressa non diceva niente per farli smettere, la sua amica era seduta nel banco e assisteva alla scena in silenzio…
Si trovava di nuovo in camera sua, la luce soffusa illuminava a malapena il suo viso, che riflesso nella specchio la osservava con sguardo torvo, quasi di sfida, ma che lasciava trasparire terrore allo stato puro; non era più una bambina, ma una ragazza, l’immagine che vedeva era solo un banale ricordo di ciò che era stata, andava via via a confondersi con le tenebre che la circondavano, i contorni erano spariti, ma restavano ancora quegli occhi, freddi come il ghiaccio, che la fissavano con furia, carichi di dolore e di odio.

Cadere giù

17 anni. Una vita buttata così. Non aveva chiesto di nascere, non aveva chiesto la vita, la luce.
Un’infanzia felice, serena, tranquilla, dove solo i giochi contavano.
Poi si cresce, poi iniziano i problemi e le difficoltà.
Poi la tragedia. Un giorno come tanti, la pioggia cadeva fitta;
– Sì tesoro sono in strada, arriverò tra qualche minuto -.
– Muoviti papà, qui ci sono già tutti, hai comprato la torta e il mio regalo? –
– Sì certo, ho preso tutto… ci vediamo tra un po’… –
Il piede calcò d’istinto l’acceleratore. Non poteva mancare al compleanno di sua figlia… non poteva.
La pioggia cadeva fitta, solo un tonfo e niente di più…
Luci, suoni, urla…
Non poteva mancare a quel compleanno, ma fu costretto a farlo.
Fu un duro colpo per Laura quando apprese la notizia.
Lei non aveva chiesto di nascere.
Non cercò conforto, coccole o dolci parole, il mondo le aveva tolto ciò che più amava.
Che ci faceva ora qui? Che senso aveva la sua esistenza?
E così cresceva, veloce, bellissima e triste.
Così cresceva sola ed irrequieta.
Arrabbiata col mondo, sì arrabbiata con la vita, arrabbiata con lui perché era andato via troppo presto.
Un vuoto interiore incolmabile, così giovane ma già così sola, con gli occhi spenti affrontava la vita, con la svogliatezza di chi ha perso tutto, sopravviveva e nulla chiedeva in cambio se non di poter star sola, sola per sempre.
Nessun amico che potesse confortarla, nessun ragazzo che potesse rassicurarla, non voleva nessuno accanto a sé ma disperatamente cercava un aiuto, un appiglio… e lo trovò.
Non parlava, non dava consigli, non giudicava, non urlava contro dicendoti “fatti forza, puoi farcela”. Era così apparentemente innocua, così candida da sembrare benevola.
Quell’ipocrita felicità le bastava, si accontentava di star bene per mezz’ora, s’illudeva che presto tutto si sarebbe aggiustato e non si preoccupava di dire “smetto quando voglio”, perché smettere non le importava, perché non le importavano le conseguenze, il futuro… solo il presente contava, solo il disperato desiderio di trovare un modo per continuare a sopravvivere, solo la stancante voglia di avere un motivo per non morire, per non cadere giù.

In fondo era solo una bambina, una giovane adolescente bisognosa non di attenzioni particolari, ma di un po’ di pazienza, di qualcuno che con coraggio sapesse entrare nel suo cuore, nella sua mente e le permettesse di far fuoriuscire la rabbia e la disperazione .
Piangeva in silenzio, piangeva piano, piangeva lenta.
La pioggia cadeva fitta, non aveva più voglia di niente, nulla le importava… ora ciò che più desiderava era andare lontano, via da ogni cosa che ormai aveva perso significato.
Le campane suonavano meste e lentamente la folla si dirigeva a dar l’ultimo saluto.
In fondo siamo tutti di passaggio,
ma era troppo presto.

Consuelo Trogu

Ombre sotto i cipressi

Giardino spoglio in novembre, è venerdì sera.
Manuela non si curava delle sfumature rosse sulle foglie croccanti, studiava, invece, l’umidità della terra ed i suoi ospiti, piccoli insetti e lombrichi, piccoli e viscidi vermiciattoli.
Alla sua finestra, accostata al davanzale impolverato, poggiava il viso sul dorso della mano sinistra, nascosta dietro enormi occhiali, occupava il minimo spazio di una stanza dalle pareti ingiallite, stropicciate di crepe e dall’aria irrespirabile.
Non era la sua camera, lei viveva presso la stazione, un cupo monolocale squallido, stretto, trascurato, vi lasciava i suoi oggetti,i suoi abiti, ma non la sua presenza.
Manuela si stabilì su quel davanzale, mangiava al davanzale, parlava dal davanzale, pensava sul davanzale e moriva e giaceva ogni giorno nel davanzale.

La piccola stanzetta dell’ospizio, fredda d’inverno, calda d’estate era il solitario focolare d’un vecchio rimasto solo, vedovo e senza figli, il signor Antonio Alberti, lavorava in portineria con sua moglie prima ancora che si sposassero e in seguito divenne operaio.
Non gli era mai piaciuta la vita in fabbrica, priva di relazioni sociali, ripetitiva e meccanica.
Dopo la pensione sognava la campagna e la moglie al suo fianco, ma dopo la pensione non ebbe più moglie né campagna.
Novantatre anni gravavano sugli occhi vispi e accesi, sulla schiena curva e le mani rigide.
Le uniche amorevoli cure che riceveva erano quelle di Manuela, ella al mattino entrava di soppiatto, spalancava tende e persiane, il signor Alberti gradiva la luce, amava inondarsi di luce, lei lo svegliava con un sussurro e gli offriva una deliziosa e abbondante colazione.
Trascorrevano la mattina tra passeggiate in giardino e tenere conversazioni, Manuela leggeva per lui dei libri o canticchiava canzoni.

Si era instaurato fra i due un rapporto molto intimo,quasi filiale, l’anziano adorava dispensarle consigli e lei sebbene non li mettesse in pratica li assorbiva avidamente.
Antonio si accorse presto della complessità e della stranezza della ragazza, gli si stringeva il cuore a vederla sempre là, con lui o assorta alla finestra di quella camera, adorava la sua compagnia ma gli pareva di derubarla del suo tempo e della sua età.
Lui sapeva bene che quell’età è la migliore, e non torna più, l’età della spensieratezza, delle piccole sciocchezze, l’età dell’amore e delle notti insonni.
Le notti di Manuela però, insonni lo erano.

Nell’ospizio i due facevano molto parlare di loro. I soliti invidiosi e cinici commenti di anziani inaspriti dalla vecchiaia e dalla solitudine. Il loro rapporto non era neanche simile a quello fra gli altri infermieri o volontari e gli ospiti del centro; albergava freddezza, professionalità ed indifferenza.
“La signorina Manuela sa il fatto suo, non presta a me le sue attenzioni, se ne guarda bene dallo sprecare il suo tempo con chi non può ricambiare il favore!” insinuò la signora della stanza accanto a quella di Antonio.
“A me non interessa – rispondeva, seccato il suo interlocutore, Giovanni, uomo orgoglioso che odiava i pettegolezzi – tu, ti porterai il veleno e l’invidia nella tomba,Elvira, Antonio è un uomo solo faccia quello che crede dei suoi soldi, sempre meglio che vadano a te, lei è giovane, tu cara, non lo sei più da un bel pezzo, ed ora lasciami fare, le carte mi danno più soddisfazione di te, guardati la tv!”

Come Elvira in tanti pensavano che Manuela fosse un’opportunista a caccia di dote, e non lo faceva cercando ricchi uomini da sposare, ma aspettava pazientemente che il caro ed amato “padre” o “nonno” se n’andasse all’altro mondo.
Il signor Alberti aveva sì messo qualcosa da parte, e molto probabilmente sarebbe stato felice di lasciare i suoi averi a quella ragazza così sola, così triste, così affabile e irrequieta, Alberti notava e si dispiaceva del suo malumore, benché lei cercasse di nasconderlo.
Manuela ignorava del tutto le ipotetiche intenzioni del suo amico, e non capiva cosa avessero da cianciare alle sue spalle, in ogni caso lei non sentiva, non sapeva e continuava a far quanto si sentiva.

Durante le sue meditazioni alla finestra dell’anziano pensava al giorno in cui lei avrebbe dormito in quel letto, non ne avrebbe voluto nessun’altro, ormai lo conosceva così bene, ne conosceva inclinazioni e scricchiolii, non pensava come le altre ragazze al corredo del letto nuziale, fantasticava sul suo ultimo giaciglio, dal quale avrebbe osservato ancora e fino alla sua ultima ora quel cipresso che adombrava il cortile, il cipresso che lei e il suo compagno avevano adottato.
Stesso albero,diversi ricordi.
Spesso si perdevano in interminabili silenzi a guardarlo entrambi, fra muti pianti soppressi e teneri sorrisi trattenuti.
Non si confidarono però quali pensieri ebbero a riguardo, i loro discorsi non si spingevano mai oltre argomenti che interessassero cultura generale o eventi poco significativi della loro esistenza, potevano parlare di qualche viaggio, o avvicinarsi alla politica, alla musica, ai libri, Antonio raccontava della guerra, ma tacevano ciò che avrebbero voluto urlare.

Ella era mite, pacata, attenta, aveva venticinque anni, un sorriso fioco, teneva i capelli con una grande pinza fucsia, erano disordinati, mangiava le unghie ed era sempre vestita di nero, sempre vestita a lutto, indossava abiti larghi che non facevano intuire le sue forme delicate, quegli abiti esprimevano la pena che sentiva per il suo corpo, per la sua tacita commiserazione e per la mondanità.
Nessuno conosceva di lei niente di più del suo nome, lei stessa per riconoscersi la mattina appena si alzava, doveva presentarsi allo specchio e dirsi chi era, così ogni giorno ristrutturava la sua vita senza però mai riuscire a darle un senso.
Dietro i suoi occhiali e dentro i suoi vestiti c’era il suo passato.
Manuela non conobbe mai sua madre, e suo padre se ne andò presto, rimase sino all’età di diciotto anni in un orfanotrofio, le mancarono subito le attenzioni e le cure di una famiglia, si legò per questo ad un giovanotto, Alessandro, aveva la sua stessa età, in lui vide un amico, un fratello, un confidente, un complice, e per così dire, un piccolo “amante”, a lui diede i suoi primi baci ed i suoi unici baci.
Maschi e femmine non si potevano incontrare se non alla mensa e nelle ore ricreative, ma loro fecero in modo che le ore ricreative raddoppiassero e rubavano alla notte qualche dolce attimo in più, per scoprirsi, per abbracciarsi.
Fuggivano dalle loro stanze e si incontravano puntualmente alle undici e mezza ai piedi di un cipresso sul cortile posteriore, il venerdì poi, stavano a giocare a parlare e a sognare tutta la notte, fino al levarsi del sole.
Si costruivano una vita insieme e di lì a poco avrebbero realizzato i loro progetti.
Quel cipresso ascoltò le loro risate, spiò i loro baci, sentì le loro parole, carezzò la loro pelle.

Un venerdì notte, a novembre, nevicava, i due giovani uscirono comunque, quel giorno Alessandro le disse che se ne sarebbe andato, un suo lontano zio trovò lui lavoro, le disse che lo faceva per lei, se ne sarebbe andato per trovare casa e condurla con sè, quella stessa notte lui varcò l’inferriata di quel tetro edificio, voleva portarle delle castagne, lei le adorava.
Alessandro quella notte non tornò con le castagne.
Quella forte nevicata causò numerosi incidenti per le strade, e quella notte Alessandro ne rimase vittima. Travolto da una macchina morì sul colpo, la neve non fu più candida e lieve, la neve divenne sporca e rossa, traguardo d’avvoltoi.
Manuela presto abbandonò l’orfanotrofio, si trovò nel mondo frenetico e crudele, più sola che mai, senza Alessandro e senza più se stessa.

Il suo corpo venne sepolto nel cimitero della città, ai piedi d’un cipresso, ella ne abbracciava il tronco, ne baciava la corteccia, compagno, e amante divenne quel cipresso a guardia del suo amato. Lo chiamava col suo nome.
Una foto ingiallita dietro un vetro sporco, non le rimase che quello di lui, e quello venerava più di qualsiasi altra cosa.
Alberi e fiori, terra e marmo la sua casa, la loro casa.
Le chiavi in mano a custodi sconosciuti, l’ingresso libero agli estranei.
Lei lo amava,fedele come un lupo, s’accasciava, leccava il suo dolore, sola, ma a lei piaceva star sola, con lui che l’accarezzava nel vento, le parlava nelle foglie, la baciava nella pioggia.

“Manuela sai perché gioisco di fronte a quest’ albero?”
“No signor Antonio, mi dica…”,
“Per l’amor del cielo, basta con questo ‘signor’, figliuola, permettimi di dirti che per me sei la figlia che non ho mai avuto, non chiamarmi papà, per rispetto al tuo che non ho mai avuto il piacere di conoscere, ma almeno Antonio concedimelo…”
“Mi scusi Antonio, ha ragione…”
“Manuela? e non darmi del lei…”
“Va bene, perdonami…”
“Ma sì… dicevo… ah, il cipresso, è così alto, pare voglia arrivare al cielo e alle beatitudini che promette. Da giovane, prima di sposarmi vedevo segretamente mia moglie, e luogo dell’appuntamento era un cipresso nascosto nel giardino della villa presso cui la sua famiglia lavorava, è ai suoi piedi che le ho chiesto di sposarmi e lei mi ha detto sì.”

Manuela abbozzò un sorriso, il respiro le mancò e il sangue quasi le si coagulò nelle vene.
Non rispose, non pianse, non s’alzò, impietrita ed immobile folgorava il cipresso e non ebbe il coraggio di voltarsi verso Antonio.
Alberti non seguitò, capì che Manuela non s’accese per quella rivelazione, tutt’altro, s’accorse che le sue parole avevano eroso o destato qualcosa di spiacevole, anzi, qualcosa di fortemente doloroso.
Fu ancora silenzio, questa volta un silenzio pesante, fangoso, un silenzio folle.
Manuela se ne andò, lo salutò con un bacio sulla fronte, lo lasciò alla finestra e sbatté la porta.
Antonio mortificato non si mosse, aveva ferito chi più gli era cara, la gioia con cui ricordava sua moglie mutò in senso di colpa per Manuela.

Era venerdì sera, novembre, fuori nevicava, Manuela dal suo appartamento sentiva sferragliare il treno, quella notte, però, lo aspettava, agitata e ansante, voleva farsi rapire e viaggiare sul suo fischio.
Veloce e appesantita spalancò le finestre, le uniche due della stanza, risanò i suoi polmoni, permise alla luce dei lampioni di entrare, e volentieri l’accolse; si gettò poi sull’armadio, cercò una dimenticata stampa di Degas, adorava Degas negli anni dell’orfanotrofio, per ore guardava quell’imitazione nel salone, adorava la grazia di quelle ballerine, “Ballerine sulla scena”, una ballerina in atteggiamento di curiosa scoperta, i piedi in terza posizione a testare il palcoscenico, sfumature verdi sullo sfondo.
L’imminente movimento, il principio della danza eliminavano l’immobilità che l’opprimeva, il rosa pastello del tutù e delle punte, era il colore della florida fanciullezza femminile.
Si nutriva dei fiori che ornavano l’acconciatura di quella ballerina.
Degas, come un profumo svaporato non sortì più il suo effetto, Manuela odiava quelle ballerine, non ne distingueva più i colori; rosso, vedeva solo il rosso, lo vedeva sulla stampa, in casa e addosso, se lo sentiva colare sulla pelle, denso e odoroso.

L’invadente trillo del campanello la destò dall’inquietante visione che costruiva, “Il signor Alberti non sta bene, si rifiuta di assumere le medicine e non mangia, Manuela ci pensi lei per cortesia, a lei presta ascolto.” Così un’infermiera si presentò nel suo appartamento.
“Mi dia solo un attimo, la raggiungerò al più presto, prego, torni pure alle sue faccende.La .br />

Davanti allo specchio sciolse i capelli,come piacevano ad Alessandro, tolse gli occhiali, si riscoprì adolescente e s’inventò adulta.
Trovò Antonio all’ombra del cipresso, s’inginocchiò e posò il capo sul suo grembo, egli fu lieto di vederla là, accanto a lui e si commosse.
Manuela gli spiegò, gli disse cos ‘era per lei quell’albero, pianse tanto e pianse a lungo.
Insieme pregarono, l’un con l’altra si consolarono, Antonio mangiava neve, Manuela inghiottiva cenere.
Salirono su, la ragazza diede le medicine al vecchio, lo nutrì, lo aiutò a stendersi e lo coprì.
“Papà, non c’eri quando piangevo e non c’eri quando scappavo. Non mi hai mai chiesto cosa avrei voluto fare da grande, non mi hai mai baciato sulla fronte.”
“Manuela cara, se solo ti avessi incontrata prima, avrei asciugato le tue lacrime, ti avrei rincorsa, ti avrei aiutata a realizzare i tuoi sogni, e non uno, ma mille baci avrebbero coperto la tua fronte.”
Avevano talmente bisogno di stringersi che fingevano una parentela, era vera finzione o finta realtà, ciò non importava, a loro stava bene così.

Si assopì il signor Alberti, e Manuela dopo aver salutato il loro albero, durante la notte, insonne come altre, rassettò la stanza, piegò gli indumenti, ne preparò di nuovi e li posò sulla poltrona, scelse i più eleganti ed i più sobri, era una ragazza pignola nonostante trascurasse se stessa.
Scivolò silenziosa in infermeria, trasse una siringa da un cassetto, si soffermò dubbiosa sulla sostanza da introdurci.
La scelta fu presto fatta. Aria. L’avrebbe riempita d’aria, di quella stessa che insieme respirarono, di quella tetra e tersa aria che li abbracciava e li divideva.

Tornò da Antonio, lo osservò dormire, ne respirò il fiato, pesante e grave, non si muoveva il signor Alberti durante il sonno.
Impotente di fronte al destino che la travolse volle essere qualcosa di più per quell ‘uomo, per quel vecchio, per quel padre.
Lo amava svisceratamente ed altrettanto lo odiava, pretendeva le appartenesse e sperava si allontanasse.
Il cipresso, era lui a parlare, a ordinare, Alessandro le comandava di farlo, per lei, per lui, per loro.
Non tollerava Manuela, che il padre da cui era stata abbondata avesse ricordi felici, aveva tanto sofferto da piccola e continuava a soffrire; non sopportava che quel cipresso innevato per lui si colorasse di gioia e per lei di disperazione, doveva pagare, qualcuno doveva pagare, suo padre lo avrebbe fatto, il signor Antonio Alberti.
Pensò questo mentre intonava una ninna nanna, gli accarezzava i capelli e gli baciava le labbra.
Aprì la finestra, fece entrare Aria. “aria di neve e fiocchi si posano sul mio davanzale, trespolo di un uccello in gabbia, ali tarpate, becco serrato, e tu papà, come sarai contento fra poco, lo saremo entrambi.”

Scostò le coperte, prese il braccio di Antonio, all’ombra del loro cipresso che investiva la stanza, la mano di lei afferrò la siringa e bolle d’aria nel sangue.
Il cuore gli si arrestò, infarto.
Manuela avrebbe voluto guardarlo negli occhi un’ultima volta, non poté, i suoi occhi sognavano.
“Buon viaggio papà”.
Indossato il soprabito scese, salutò il cipresso e guardò la finestra dalla quale si affacciava sempre.
Orfanotrofio e cimitero le ultime mete.
Al settimo anniversario, in un venerdì di novembre, bagnò di lacrime la foto ingiallita, perché Alessandro non la vedesse si spostò, sorrise Manuela, niente più stranezze, niente più bisbigli, un nodo di cravatta e…

Sintesi

Manuela è una ragazza sola,perde l’identità e scivola nel tunnel dell’ossessione e della follia.
Antonio Alberti è un anziano solo ma ancorato alla vita e ai suoi ricordi.
Ciò che per Manuela è triste e doloroso per Antonio è felice.
Un oggetto, due interpretazioni e differenti realtà.

Nel racconto ho voluto sviluppare alcuni aspetti significativi della poetica pirandelliana.
L’alienazione e la perdita,l’incomunicabilità e la verità illusoria.
I protagonisti si trovano in una sorta di sospensione della realtà, vite irrisolte e spezzate, rose da un turbamento interiore che non lascia spazio in nessun modo alla catarsi.

Vanessa Pia